Finora ad ogni lezione abbiamo percorso un gradino nella comprensione delle proprietà dell’universo: ci siamo così accorti che questo, oltre ad essere sempre più vasto, è caratterizzato da un insieme di strutture gerarchiche a scala sempre maggiore. In questo processo ci siamo via via avvicinati alle problematiche più generali della cosmologia e cioè a quella scienza che studia l’ origine e l’evoluzione dello stesso universo.
Questa sera vogliamo affrontare alcuni degli aspetti fisici che sono alla base delle moderne interpretazioni della nascita ed evoluzione dell’universo. Concluderemo quindi il nostro viaggio nell’universo presentando i tratti principali di queste teorie, con la consapevolezza che, ad ogni ampliamento di orizzonte, si accompagna la necessità di disporre di nuovi elementi osservativi. Solo così i modelli teorici possono avere attendibilità scientifica e tentare di rispondere alle numerose domande che l’universo ci pone.
Un fenomeno fisico di fondamentale importanza per l’astrofisica, l’ effetto Doppler, è un requisito essenziale per poter comprendere alcuni importanti proprietà dell’universo. Vediamone le caratteristiche.
L’effetto Doppler può essere facilmente compreso se ci rifacciamo ad una situazione abbastanza comune ossia al fischio di un treno in corsa. Se stiamo attendendo pazientemente ad un passaggio a livello che il treno transiti, quando questo si sta avvicinando percepiamo il fischio che ne segnala l’arrivo in modo abbastanza diverso di quando il treno, superato il passaggio a livello, se ne allontana. Ponendo un po’ d’attenzione a questa situazione potremmo rilevare che il suono nella fase di avvicinamento risulta più acuto mentre lo è di meno quando si sta allontanando. Eppure siccome la frequenza del suono emessa dal fischio non può cambiare nei brevi istanti del transito, dobbiamo concludere che chi percepisce il suono, il cosiddetto osservatore, rileva un aumento di frequenza quando vi è un avvicinamento, una diminuzione quando la sorgente delle onde sonore si allontana. Detto in altro modo, la frequenza rilevata di un suono emesso da una sorgente può cambiare a seconda che vi sia un moto di avvicinamento o di allontanamento tra la sorgente e l’osservatore.
Va sottolineato che la sorgente, nel nostro esempio l’apparato che genera il fischio del treno, non modifica le sue proprietà intrinseche (tanto che per i conducenti la tonalità non cambia), mentre cambia invece la frequenza rilevata. Quindi in assenza di moto relativo tra sorgente ed osservatore la frequenza sarebbe quella caratteristica della sorgente, la cosiddetta frequenza propria. In definitiva, la frequenza di un suono deve dipendere dalla velocità relativa con cui osservatore e sorgente si muovono uno rispetto all’altro: maggiore è questa velocità, maggiore sarà la diversità rilevata nel suono. In ciò consiste l’effetto Doppler.
Le leggi fisiche per questo fenomeno collegano la frequenza propria della sorgente con quella rilevata e con la velocità relativa: in particolare, se pensiamo conosciuta la frequenza propria (l’apparato responsabile del fischio è stato, in fin dei conti, costruito da noi!) e misuriamo quella apparente (rilevata ancora da noi al passaggio del treno), è possibile in base a queste leggi, risalire alla velocità relativa con cui si muovono sorgente ed osservatore (cioè alla velocità del treno!).
Leggi fondamentalmente analoghe sussistono anche nel caso delle onde luminose cioè della luce.
Supponiamo allora di conoscere l’insieme delle frequenze emesse da una sorgente luminosa come, per esempio, da una comune lampadina ad incandescenza. Per far ciò basta, come detto in altra lezione, rilevarne lo spettro facendo passare la luce emessa dalla lampadina attraverso un prisma di vetro e fotografandone l’insieme delle righe componenti cioè dei colori che formano la luce. Se ora la medesima lampadina viene allontanata con una velocità abbastanza grande e durante questo allontanamento analizziamo ancora una volta lo spettro, vedremo come questo, dalla posizione originaria, subisca uno spostamento verso il colore rosso, cioè verso le frequenze minori (fig. 1).
Fig. 1. Spostamento delle righe spettrali ed effetto Doppler.
In effetti la lampadina apparirebbe più rossa. Viceversa, se il moto fosse di avvicinamento, la sorgente verrebbe ad assumere un colore tendente all’azzurro e l’intero spettro si troverebbe spostato verso l’azzurro- violetto. Misurando l’entità di questo spostamento in frequenza si può risalire alla velocità di allontanamento nel primo caso, di avvicinamento nel secondo. Sostituendo alla lampadina una stella l’effetto non cambia.
Scopriamo quindi che, in base a questo fenomeno fisico quando è noto lo spettro intrinseco di una sorgente di luce (basta rilevarlo quando questa è ferma), la misura dello spostamento subìto dall’intero spettro permette di risalire alla velocità relativa tra sorgente ed osservatore. Sarà pertanto possibile, note le posizioni di alcune righe di riferimento nello spettro dei gas stellari (tutti i laboratori possiedono delle lampade contenenti i gas più comuni), risalire alla velocità di allontanamento (o di avvicinamento) di una stella o di una galassia, solo rilevando l’entità dello spostamento Doppler di queste.
Velocità di espansione delle galassie
Abbiamo già trattato nella faq n.6 della lezione sulle galassie il problema della determinazione della distanza delle galassie. Attorno a tale delicato problema sono sorti diversi metodi ma ancora la stima della distanza attraverso l’osservazione di stelle cefeidi (faq n.5 e 6), risulta il sistema più preciso. Fu Henrietta Leavitt dell’osservatorio di Harvard che nel 1908 scoprì che il periodo con cui varia la luminosità di una cefeide dipende rigorosamente dalla sua magnitudine assoluta: l’uno cresce all’aumentare dell’altra. Questa relazione deriva dal fatto che la luminosità di una cefeide è proporzionale alla sua area: le cefeidi più grandi, e quindi più brillanti, pulsano più lentamente per lo stesso motivo per cui, per esempio, le campane più grandi risuonano a una frequenza più bassa (cioè con un periodo più lungo).
Sta di fatto che, attraverso le cefeidi, negli anni ’20 fu possibile conoscere la distanza delle galassie più prossime alla Via Lattea con sufficiente precisione. In base a ciò si poté dimostrare come le cosiddette (allora) nebulose spirali fossero in realtà galassie simili alla nostra e ben distinte da questa.
Lo studio degli spettri di queste galassie, condotto da vari astronomi come Shipler e Edwin Hubble, portò invece a dei risultati altrettanto importanti. Come Hubble si aspettava, gli spettri di una galassia sono una combinazione degli spettri dei vari oggetti che la compongono: sappiamo che in una galassia come la nostra sono rappresentati tutti gli stadi evolutivi delle stelle per cui vi potranno essere le righe spettrali tipiche delle stelle azzurre o rosse così come quelle delle nubi di gas e polveri. Il risultato più sorprendente fu comunque quello di rilevare come le righe spettrali dei vari elementi fossero tutte sistematicamente spostate verso il rosso (il cosiddetto redshift), rispetto alla posizione tipica delle medesime righe osservata nei laboratori. In particolare lo spostamento verso il rosso era tanto più forte, quanto maggiore era la distanza della galassia da noi.
Hubble nel 1929 disponeva di 46 galassie di cui era nota sia la distanza sia lo spostamento verso il rosso. Interpretando questo spostamento come risultato dell’effetto Doppler si otteneva che queste galassie dovevano allontanarsi dalla nostra ad una velocità elevatissima. Fece quindi la fondamentale osservazione che la velocità di recessione di ciascuna galassia fosse proporzionale alla sua distanza ossia, ad eccezione delle galassie del gruppo locale (come Andromeda), le galassie mostravano un aumento regolare della loro velocità al crescere della distanza (fig. 2).
La legge proposta da Hubble assume la semplice forma V = H · d, dove V è la velocità di regressione della galassia, d la sua distanza da noi. poiché H è una costante (la cosiddetta costante di Hubble), questa legge afferma che se una galassia possiede una velocità di espansione doppia di un’altra, questa stessa galassia dovrà avere pure una distanza doppia dell’altra. È questa scoperta che costituisce la prima indicazione che l’universo si sta espandendo e che quindi pone, in un contesto moderno, l’antica domanda circa l’origine dell’universo.
Siccome è sulla base della legge di Hubble che si misurano le dimensioni e l’età dell’universo, è evidente l’importanza che assume la conoscenza del valore della costante H. Senza entrare nei particolari storici e nelle vivaci discussioni attuali, diremo solo che negli ultimi vent’anni le determinazioni di H sono cadute tutte nell’intervallo di valori compreso tra 50 e 100 km/s × Mpc, cioè tra 50 e 100 chilometri al secondo per megaparsec (o anche tra 50 e 100 chilometri al secondo per 3,26 milioni di anni luce). La figura 2 rappresenta graficamente la legge di Hubble, evidenziando l’incertezza sul valore della costante H.
Fig. 2. Rappresentazione della legge di Hubble e dispersione della costante H.
In base a tutto ciò, per misurare le distanze di un oggetto extragalattico con un redshift significativo, la procedura seguita attualmente è la seguente:
• misura dello spostamento verso il rosso delle righe dello spettro, il redshift:
• calcolo della velocità di allontanamento tramite le leggi dell’effetto Doppler:
• calcolo della distanza tramite la legge di Hubble, d = V/H.
Come vedremo, il valore di H dato sopra ha pure una diretta conseguenza sull'età dell’universo: l’inizio dell’espansione di quest’ultimo sarebbe in tal modo avvenuta tra 10 e 20 miliardi di anni fa.
La descrizione degli oggetti dell’universo extragalattico non sarebbe completa se non ricordasse ciò che è considerata come una fondamentale scoperta della seconda metà del XX secolo, una scoperta dovuta principalmente ai radioastronomi: la scoperta dei (o anche, delle) quasar.
Negli anni Cinquanta, i radioastronomi scoprirono una moltitudine di oggetti nel cielo che emettevano grandi quantità di radiazione nelle frequenze delle onde radio. Poiché i radiotelescopi di allora non potevano dare facilmente delle indicazioni sulla posizione di una sorgente radio (oggi la situazione è radicalmente diversa), non era noto quali tipi di oggetti visibili, seppure ce ne fosse stato qualcuno, corrispondevano alle radiosorgenti. Solo in qualche fortunato caso era possibile determinare con maggiore precisione la posizione di qualche radiosorgente in quanto la Luna passando dinanzi ad essa, ne eclissava le onde radio.
Tali occultazioni rappresentavano quindi delle ottime occasioni perché, nota con precisione la posizione della Luna, si poteva localizzare con altrettanta precisione la posizione della sorgente radio ed eventualmente la sua controparte ottica.
Il primo quasar ad essere riconosciuto come “oggetto” strano fu 3C 48. Due astronomi dell’osservatorio Hale di Monte Palomar notarono che la radiosorgente 3C 48, sembrava coincidere con una debole stellina azzurrastra, di magnitudine 16 (cioè 10.000 volte più debole delle più deboli stelle visibili ad occhio nudo).
Era il 1960, e fino ad allora nessuna stella, ad eccezione del Sole, aveva dato luogo ad emissioni radio misurabili. E se il Sole fosse stato ad una distanza di poco più di 4 anni luce, come la stella più vicina, nessun radiotelescopio avrebbe potuto rilevare le sue radioemissioni. L’annuncio quindi di tale scoperta suscitò scalpore e anche diffidenza. Comunque parecchi astronomi si misero a studiare lo spettro di tale oggetto e videro qualcosa di molto strano: larghe righe di emissione a lunghezze d’onda che non corrispondevano a nessuna di quelle che si vedono normalmente negli spettri delle stelle. Un tale spettro non era affatto simile a quello delle stelle.
La soluzione dell’enigma di 3C 48 venne qualche anno dopo, nel 1962. Ancora la Luna eclissò un’altra radiosorgente, la 3C 273, e alcuni astronomi australiani registrarono questa occultazione determinando accuratamente la posizione della radiosorgente. Fu quindi possibile identificare la controparte ottica con precisione e studiarne lo spettro. Ci si aspettava che anche questa radiosorgente dovesse avere uno spettro analogo alla 3C 48 e difatti l’analisi dello spettro confermava le stesse peculiarità notate in 3C 48. Ancora una volta la controparte ottica della radiosorgente 3C 273 aveva uno spettro a righe brillanti, piuttosto diverso dai soliti spettri stellari. Emetteva luce solo a poche lunghezze d’onda, e queste lunghezze d’onda non si accordavano con quelle note. L’idrogeno, l’elemento più comune nell’universo, avrebbe emesso luce solo in poche lunghezze d’onda, quando fosse stato in una nube incandescente, ma queste non erano le lunghezze d’onda viste in 3C 273. Fu Maarten Schmidt, un astronomo olandese appena trasferitosi al California Institute of Technology, ad avere un lampo di genio. Egli notò che lo spettro di emissione di 3C 273 corrispondeva allo spettro di emissione dell’idrogeno se si supponeva che questo oggetto di aspetto stellare avesse uno spostamento verso il rosso enorme, un redshift Doppler corrispondente a una velocità di allontanamento di 45.000 km/s, più di un decimo della velocità della luce. Per l’oggetto 3C 48 addirittura il redshift implicava una velocità di allontanamento di 100.000 km/s, un terzo della velocità della luce!
Nessuna stella della Galassia avrebbe potuto muoversi così velocemente; essa sarebbe sfuggita alla Galassia molto tempo fa. In base alla legge di Hubble, 3C 273 doveva essere ad una distanza di 3 miliardi di anni luce mentre per la seconda radiosorgente, la distanza doveva essere di 5 miliardi di anni luce. Dunque questi oggetti non erano stelle della nostra Galassia ma dovevano per forza di cose essere oggetti extragalattici, anche se avevano proprio l’apparenza stellare! Va pure notato che le galassie normali poste circa alla stessa distanza, mostrano chiaramente la loro struttura non stellare, apparendo come delle macchioline sfumate dove si possono distinguere ancora tracce delle spirali e del nucleo. Fu così coniato il termine quasarsche risulta dalla contrazione delle parole inglesi quasi stellar astronomical radio-source e che sta ad indicare le sorgenti radio astronomiche di aspetto quasi stellare.
Se gli spostamenti Doppler verso il rosso dei quasar sono provocati dall’espansione dell’universo e quindi sono attendibili i valori forniti dalla legge di Hubble, allora essi devono essere molto luminosi. Difatti nota la distanza, è facile risalire alla luminosità assoluta dato che la magnitudine apparente viene rilevata con una semplice fotografia: per 3C 273 si ricava una luminosità pari a 1014 volte quella del Sole (100.000 miliardi di volte quella del Sole): è cioè 1000 volte superiore allo splendore tipico di una galassia normale!
Pur essendo questo splendore uno dei maggiori in assoluto tutte le scoperte di quasar che sono seguite, hanno confermato la loro natura di sorgenti di grandi quantità di energia: da regioni certamente molto più piccole del volume di un'intera galassia, proviene un flusso di energia da 100 a 1000 volte più grande.
Solo i nuclei delle galassie mostrano di emettere quantità confrontabili, seppur minori, di energia. E difatti l’interpretazione odierna considera i quasar come i nuclei di galassie estremamente attive. Queste galassie risultano troppo lontane perché la debole luminosità dell’ammasso di stelle e polveri che avvolge il nucleo sia osservabile. Nelle osservazioni quindi appare solo la parte più luminosa di esse: appunto il nucleo.
Questa ipotesi si basa pure sull'osservazione che sembra esserci una sequenza continua di galassie con nuclei più o meno attivi. La sequenza va da galassie normali come la nostra in cui il nucleo dà modesti segni di attività, alle galassie di Seyfert, a quelle di tipo N e Markarian o più generalmente alle AGN (Active Galactic Nuclei) che presentano in scala minore, gli stessi fenomeni dei quasar, come la presenza di un nucleo molto brillante rispetto alla galassia che lo circonda, spettri molto simili, con righe di emissione indicanti una grande abbondanza di gas ad alta temperatura.
Questa somiglianza qualitativa ha portato a pensare che la fonte d’energia debba essere la stessa ossia che il “motore” centrale che alimenta il nucleo sia sostanzialmente dello stesso tipo pur con potenze di valore diverso. La straordinarietà dei quasar o di oggetti analoghi ma privi di emissioni radio (sono i cosiddetti QSO, Quasi Stellar Objects), consiste quindi nella capacità di produrre enormi energie in volumi tanto piccoli.
Sorge quindi il problema di determinare la sorgente di tale energia. Ora se teniamo presente che la luminosità delle galassie normali è dovuta essenzialmente alla luminosità delle stelle che le compongono e a quella dei gas illuminati ed eccitati dalle stesse stelle, potremmo pensare che i quasar debbano presentare nel nucleo un addensamento di stelle, tale da giustificarne lo splendore. In effetti questa poteva essere l’ipotesi più naturale ma ci si accorse ben presto che il volume del nucleo centrale era troppo piccolo per contenere tutte le stelle necessarie per spiegarne la produzione di energia. Nel caso dei quasar ci si trova quindi in una posizione per certi versi analoga a quella attraversata nella ricerca dell’origine dell’energia solare: si devono trovare processi che spieghino come faccia un oggetto del diametro di pochi anni luce, o forse meno, emettere tanta radiazione quanto quella prodotta da 1000 galassie.
Dato che la conoscenza dei quasar è tutt'altro che completa, manca ancora una risposta soddisfacente a questa domanda. Comunque la maggior parte degli studiosi ritiene che la sorgente ultima che alimenta i quasar sia l’energia gravitazionale di un oggetto di massa e densità elevatissime quali si possono supporre solo in un buco nero. Difatti considerando un corpo di massa m che cada per attrazione gravitazionale su un buco nero, l’energia gravitazionale liberata sarà pari a E = 0 , 5 mc 2, risultato che evidenzia come il 50% della massa venga trasformato in energia, frazione questa ben più rilevante di quella ottenibile attraverso le sole reazioni di fusione nucleare. Il processo che coinvolge la caduta di materia su un buco nero risulta pertanto molto più efficiente che i processi nucleari.
Purtroppo nessuno ha finora mai compiuto un'osservazione diretta capace di confermare o smentire che nei quasar esistano buchi neri.
La volta scorsa abbiamo parlato di galassie, delle loro forme e della loro evoluzione. Pur avendo ancora una volta allargato la prospettiva, l’esposizione fatta mirava ad approfondire la conoscenza individuale di queste strutture, vere e proprie “isole” di stelle e polveri nelle lontananze dello spazio cosmico. Sulla base della misura dello spostamento Doppler verso il rosso e conoscendo la legge di Hubble, è naturale chiedersi quale sia la distribuzione delle galassie nell’universo e se queste abbiano o meno moti propri cioè posseggano delle velocità che si sommano a quella di espansione dell’universo.
Comunque pur disponendo della legge di Hubble, la conoscenza della distribuzione delle galassie fino a pochi anni fa è stata essenzialmente bidimensionale. Difatti se l’analisi di una singola fotografia in un catalogo di galassie permette di stabilire le posizioni anche di migliaia di galassie (espresse con le due coordinate celesti, l’ascensione retta e la declinazione) ciò non accade per la terza dimensione, cioè per la distanza. Per stimare la distanza e “collocare” definitivamente la galassia nello spazio, va fatto uno studio dello spostamento spettrale. Ora un tale metodo ha lo svantaggio rispetto alla fotografia dei campi galattici, che va condotto individualmente, galassia per galassia. Solo con l’aumentare della potenza dei telescopi ma soprattutto con l’aumentata sensibilità sia delle emulsioni fotografiche che dei rivelatori elettronici, sono stati possibili negli ultimi dieci anni rilevamenti su vasta scala di spostamenti verso il rosso. Tali studi hanno confermato da un lato quanto già era emerso tramite lo studio delle galassie più vicine e cioè che queste tendono a disporsi in gruppi e ammassi più o meno numerosi, comprendenti galassie legate gravitazionalmente tra di loro.
Il risultato più sorprendente di queste “esplorazioni” sistematiche consiste però nell’aver evidenziato che a loro volta, gli ammassi di galassie non sono distribuiti in modo uniforme ma si addensano in enormi strutture laminari e filamentose la cui dimensione massima, circa 100 milioni di anni luce, supera di 10 volte quella minima. Strutture di questo genere possono contenere fino ad un milione di galassie, e la loro massa è dell’ordine delle 1016 masse solari. Inoltre le galassie non sono distribuite uniformemente all’interno della struttura: si distinguono grumi e nastri più densamente popolati, molti dei quali si trovano all’intersezione di due lamine. Infine, dispersi qua e là tra le strutture più grandi, si aprono enormi vuoti come delle enormi bolle, praticamente privi di galassie, con dimensioni tra i 100 e i 400 milioni di anni luce (fig. 3). Su una scala di molte centinaia di milioni di anni luce l’universo presenta quindi una struttura simile a quella della schiuma, con enormi spazi vuoti circondati da strisce e filamenti galattici.
Fig. 3. Distribuzione delle galassie con distanze minori di un miliardo di anni luce, tra 20 e 40 gradi nord.
L’attuale distribuzione delle galassie appare quindi estremamente eterogenea almeno fino ad una distanza di diverse centinaia di milioni di anni luce. Pare inoltre probabile che questa disomogeneità si possa estendere sino a miliardi di anni luce e caratterizzi l’intero universo. Se quindi questa distribuzione corrisponde a quella complessiva della materia, dobbiamo concludere che l’ universo osservato attualmente mostra una evidente mancanza di omogeneità. A questa affermazione dobbiamo prudenzialmente aggiungere che l’universo potrebbe contenere molta materia non luminosa, la cosiddetta “materia oscura” che, come già accennato (si veda la faq n. 7 della precedente lezione), si dimostra necessaria per spiegare le velocità di rotazione delle galassie. Vedremo più avanti come al contrario, vi siano indizi del fatto che in epoche molto remote, l’universo fosse invece molto più omogeneo.
Abbiamo visto come attorno alla fine degli anni ’20 Hubble abbia messo in evidenza la velocità di allontanamento delle galassie e come questa sia proporzionale alla loro distanza. Le scoperte successive di oggetti come i quasar hanno rafforzato questa interpretazione cosicché appare oggi acquisito che l’universo sia in espansione.
Già comunque negli anni dopo la seconda guerra mondiale, nel 1949, i fisici G. Gamow, R. Alpher e R. Herman avevano predetto che, se l’universo era il risultato di un fenomeno iniziato circa 10 o 20 miliardi di anni fa e comunemente indicato come il Big Bang, oggi l’universo dovrebbe essere riempito uniformemente di radiazione di appena qualche grado sopra lo zero assoluto ossia al di sopra di una temperatura di -273 gradi centigradi. Ma qual è il significato di una tale proposta, peraltro a quel tempo subito dimenticata?
Dobbiamo a tale scopo, rifarci ancora una volta a delle esperienze comuni e all’interpretazione che di esse ne dà la fisica. Consideriamo allora il forno della nostra cucina, ermeticamente chiuso, alla temperatura per esempio, di 200 gradi centigradi. Dopo un certo tempo la temperatura dell’aria dentro il forno e quella delle pareti si troveranno in equilibrio termico alla medesima temperatura. Se apriamo il forno saremo investiti da una vampata di calore, e un misuratore di radiazione ci direbbe che il forno irraggia o diffonde onde elettromagnetiche con un massimo di intensità nella regione infrarossa dello spettro della luce. La radiazione in tal modo rilevata è legata in modo univoco alla temperatura del forno.
Analogamente in un forno per la fusione dei metalli, essendovi una temperatura di qualche migliaio di gradi, la radiazione emessa risulterà tipica di quella temperatura: difatti in questo caso, una parte viene emessa nella banda infrarossa dello spettro e un’altra frazione nella parte visibile. Come già detto a riguardo del colore delle stelle, il “colore” di un oggetto incandescente è indice della sua temperatura. La legge che lega l’emissione termica di tali corpi è ben conosciuta (è la legge di Planck per il corpo nero) e, se il corpo risulta sufficientemente opaco alla radiazione, non dipende dalla sostanza di cui è fatto.
Siamo ora in grado di intuire il significato della proposta di Gamow: se consideriamo a ritroso la storia dell’universo, tutta la materia e la radiazione in esso contenuti verrebbero compressi in volumi sempre più piccoli e a densità sempre più alte. Ora siccome è esperienza comune che quando si comprime il gas, questo si riscalda, l’universo primordiale doveva dunque essere riempito di materia e radiazione a temperature molto alte cioè, riprendendo l’analogia, doveva inizialmente assomigliare ad una fornace riempita di radiazione in equilibrio con tutto quanto in essa contenuto. A seguito dell’espansione questa temperatura dovrebbe quindi essere scesa a valori inferiori ma dovrebbe ancora potersi rilevare. E la proposta di Gamow era appunto che dovesse esserci una radiazione di pochi gradi al di sopra dello zero assoluto. Come detto però il lavoro di Gamow e collaboratori venne inizialmente del tutto dimenticato.
Nel 1964 Arno Penzias e Robert Wilson, due ingegneri dei laboratori Bell, stavano tentando di stabilire quali fossero le cause di un rumore che presentava una loro antenna radio e che disturbava le trasmissioni a microonde da e per i satelliti che allora si cominciavano a lanciare. Questi, eliminate tutte le possibili cause di rumore (tra le quali anche due uccelli che avevano fatto il nido dentro l’antenna), si accorsero che, in qualunque direzione puntassero l’antenna, restava un tenue rumore di fondo costante. Intanto all’Università di Princeton, a pochi chilometri di distanza, Robert Dicke e James Peebles, avevano riscoperto il lavoro di Gamow, e stavano progettando uno strumento per scoprire proprio la radiazione “fossile”. Appena Penzias e Wilson vennero a conoscenza dell’attività del gruppo di Princeton, li invitarono a visitare l’antenna e ad analizzare i risultati sul rumore da loro rilevato. E quasi subito si accorsero che il rumore poteva essere interpretato come una traccia di quella radiazione che doveva pervadere l’intero universo, resto fossile del caldissimo universo primordiale e ora raffreddata dall’espansione: la radiazione di fondo a microonde. Ne risultò quindi un articolo dove accanto ai risultati sperimentali da parte degli scopritori (che nel ’78 presero per questo il premio Nobel) ne veniva fornita la corretta interpretazione. Quel che era cominciato come un lavoro sui satelliti per telecomunicazioni si era trasformato in una miniera d’oro per la cosmologia!
Tutte le misure successive sull'intensità di questa radiazione hanno confermato che l’andamento in funzione della lunghezza d’onda si accorda perfettamente con la distribuzione teorica emessa da un corpo alla temperatura di circa 3 gradi assoluti (per la precisione 2 , 735 K). Ne deriva che noi e tutte le galassie nell’universo siamo immersi in un “mare” di radiazione alla temperatura di circa 3 gradi sopra lo zero assoluto e, quel che più conta, questa radiazione costituisce un’ indicazione diretta del fatto che l’universo cominciò ad espandersi a partire da uno stato di densità e temperatura elevatissime. Difatti sono proprio queste le condizioni necessarie per poter produrre una simile radiazione.
Lo studio invece della distribuzione spaziale della radiazione di fondo ha pure messo in luce un’altra sua proprietà caratteristica: essa è quasi identica in tutte le direzioni, in quanto la sua intensità varia appena di una parte su 100.000. La spiegazione di questa isotropia è che la radiazione di fondo riempie uniformemente tutto lo spazio e che in tal modo essa riflette l’uniformità dell’universo primordiale. Sappiamo però che oggi l’universo è ben lungi dall’essere uniforme: esistono degli addensamenti di materia, le galassie e gli ammassi di galassie e tutti questi appaiono distribuiti sulla superficie di enormi rarefazioni quasi del tutto vuote. Come si sono potute formare ed organizzare tutte le strutture descritte finora se l’universo originariamente era uniforme?
La luce che proviene dalle più lontane galassie e dai quasar ci mostra com’era l’universo miliardi di anni fa.
I satelliti (il COBE, Cosmic Background Explorer) rivelano con precisione estrema la radiazione cosmica di fondo residua delle prime fasi dell’espansione, fornendo un'immagine dell’universo alle scale più grandi osservabili. Parallelamente nei laboratori di fisica, gli acceleratori di particelle esplorano le basi fisiche degli ambienti di alta energia cosicché le leggi valide in questo dominio permettono, per la prima volta, di affrontare il problema della genesi dell’universo in modo razionale e con il supporto di teorie fisiche adeguate.
Oggi i tentativi per organizzare tutta questa serie di elementi si concretizzano in una teoria che prende il nome di modello cosmologico standard o teoria cosmologica del big bang. L’affermazione principale di questa teoria è che, a grande scala, l’universo si sta espandendo in maniera quasi omogenea a partire da uno stato iniziale molto denso. Vediamo per grandi linee come questa teoria tenti di rispondere alle principali domande sull'origine e sull'evoluzione dell’universo (fig. 4 a pagina 64).
In un istante singolare, circa 10–20 miliardi di anni fa, tutta la materia e l’energia che oggi osserviamo, concentrata in una regione di densità infinita e raggio zero, cominciò ad espandersi e a raffreddarsi a velocità incredibile. È questo l’istante del big bang ma date le condizioni fisiche, su questo istante non è possibile fare alcuna affermazione significativa in quanto, semplicemente, le leggi utilizzate perdono lì la loro validità.
Va solo detto che l’espansione che ha inizio in questo istante è quella dello spazio stesso per cui non è solo la materia che è compressa a densità infinita ma anche lo spazio risulta compresso fino al punto di non esistere più. In altri termini il big bang rappresenta l’ origine dello spazio, del tempo, della materia e dell’energia, cioè in ultima analisi di tutte le realtà fisiche. In questo scenario quindi non ha senso chiedersi che cosa poteva esserci prima di tale istante o da che cosa fu cagionata l’esplosione originaria per il fatto che non preesisteva un vuoto all’interno del quale è avvenuto il big bang.
Per poter iniziare a descrivere le condizioni dell’universo bisogna quindi partire da un istante 10-12 secondi dopo quello nominale di temperatura infinita. Allora la temperatura è scesa a circa 1015 gradi, abbastanza da permettere l’applicazione delle teorie fisiche. A queste temperature l’universo doveva essere pieno di un gas formato da tutti i tipi di particelle noti alla fisica nucleare delle alte energie, insieme con le loro antiparticelle. Per l’altissima densità queste particelle sono soggette a continue collisioni che da un lato generano a loro volta altre particelle e dall’altro favoriscono le annichilazioni con le rispettive antiparticelle.
Con il procedere dell’espansione e del raffreddamento dell’universo, i processi di creazione si fecero più lenti di quelli di annichilazione e quasi tutte le particelle e antiparticelle scomparvero. Se non fosse stato per una piccola eccedenza degli elettroni rispetto agli antielettroni (i positroni) e dei quark rispetto agli antiquark, prodottasi probabilmente in un'epoca anteriore ai 10-12 secondi, l’universo di oggi sarebbe ben diverso. Quella piccola eccedenza di materia rispetto all’antimateria, stimata in una parte su 1010,è in effetti una delle condizioni iniziali determinanti per lo sviluppo successivo dell’universo.
All’età di 10-5 secondi la temperatura è scesa a 1000 miliardi di gradi. I fotoni cioè la radiazione elettromagnetica hanno energie tali da formare ancora coppie di elettroni e positroni: l’universo contiene una “zuppa” di particelle elementari come elettroni, positroni, neutrini, antineutrini e pochi altri protoni e neutroni.
All’età di un secondo la temperatura è scesa a 10 miliardi di gradi e ora le collisioni tra protoni e neutroni danno luogo a nuclei di deuterio che però vengono subito distrutti dalle stesse collisioni in quanto la temperatura è ancora troppo elevata.
Solo dopo 3 minuti con la temperatura scesa a un miliardo di gradi, il nucleo del deuterio, costituito da un protone e da un neutrone, risulta stabile e ciò dà inizio a tutta una serie di reazioni che, attraverso l’elio3, portano alla formazione del nucleo stabile dell’elio (4 He) e del litio 7. E la fase della nucleosintesi del deuterio e dell’elio. La corretta previsione delle abbondanze relative di questi elementi da parte del modello standard costituisce un successo fondamentale della cosmologia del big bang.
Con la formazione dell’elio la storia dell’universo primordiale non è ancora finita: terminata la nucleosintesi, l’universo continua ad espandersi e a raffreddarsi: all’età di 300.000 anni possiede dimensioni che sono circa un millesimo delle attuali, la temperatura è scesa a circa 3000 gradi e i nuclei cominciano a catturare gli elettroni. Si formano così i primi atomi stabili. Fino a questo momento l’universo era stato completamente opaco in quanto gli elettroni con continui assorbimenti ed emissioni di fotoni, avevano impedito a questi di muoversi liberamente. Ma quando gli atomi cominciano a formarsi e gli elettroni vengono intrappolati dai nuclei, il gas diventa trasparente e i fotoni sono liberi di propagarsi nello spazio. La radiazione fossile a microonde che osserviamo oggi ci mostra quell'universo di 300.000 anni di età. Difatti,nell’interpretazione della teoria del big bang, la radiazione fossile non è altro che la radiazione emessa da un corpo di 3000 gradi spostata verso il rosso per effetto dell’espansione di un fattore circa 1000. A causa dell’opacità precedente non potremo in futuro mai osservare stadi dell’universo ancora più indietro nel tempo: ci resta solo la speranza di colmare, almeno parzialmente, l’intervallo tra lo spostamento verso il rosso della radiazione di fondo e lo spostamento più grande oggi conosciuto e che corrisponde (appena!) ad un fattore 5.
Successivamente, le lievi irregolarità di larga scala presenti nella distribuzione generale del gas si intensificarono in conseguenza dell’attrazione gravitazionale e divennero sempre più irregolari. Infine il gas divenne abbastanza denso da addensarsi in vaste nubi di materiale che poi gradualmente finirono per frammentarsi formando le prime galassie e i quasar. Le dimensioni dell’universo erano allora pari ad un quinto di quelle attuali. Qui va detto che la presenza di queste irregolarità, necessaria per poter riconciliare l’apparente uniformità dell’universo primordiale con la distribuzione disomogenea delle galassie costituisce indubbiamente ancora un problema spinoso per la teoria. A tale proposito alcuni studiosi riconducono queste disomogeneità ai primissimi istanti ricorrendo ad effetti tipici del mondo microscopico quali fluttuazioni quantistiche dell’universo stesso.
Infine nel momento in cui l’universo divenne grande la metà di quanto sia oggi, le reazioni nucleari avevano già prodotto gran parte degli elementi pesanti che costituiranno i pianeti di tipo terrestre. Il sistema solare è in questa scala relativamente giovane: si formò cinque miliardi di anni fa, quando l’universo aveva raggiunto i due terzi delle dimensioni attuali. . . . E siamo giunti a noi.
Un'analisi statistica sul numero di stelle simili al nostro Sole porta a dire che, nell’universo a noi noto, queste siano circa 100 miliardi. L’universo ha perciò offerto numerose occasioni di sviluppo per la vita quale noi la intendiamo. La cosmologia del big bang comporta però che la vita sia possibile solo in un arco di tempo ben definito: in passato l’universo era troppo caldo e in futuro le sue risorse saranno sempre più limitate. In buona parte delle galassie stanno ancora nascendo stelle ma in molte altre le riserve di gas sono già esaurite.
Tra 30 miliardi di anni le galassie saranno molto più buie e piene di stelle morte o morenti e di conseguenza ci sarà un numero molto inferiore di pianeti capaci di sostenere la vita.
Quali sono allora i possibili scenari ai quali l’universo potrà andare incontro? Qual è il destino finale dell’universo? Può darsi che l’universo si espanda sempre e, in questo caso, le galassie e le stelle finiranno per diventare fredde e buie. L’alternativa è che, restando sufficiente massa dell’universo, la gravità finisca per invertire l’espansione e per far concentrare nuovamente tutta la materia e l’energia.
Non ci resta quindi che “pesare” l’universo: ma solo nei prossimi anni, con il progredire delle tecniche di misurazione della massa dell’universo, potremo forse scoprire quale delle due possibilità potrà avverarsi per noi e per il nostro universo.
Fig. 4. Principali momenti evolutivi dell’universo.
D.01. Esiste un centro dell’universo?
Se la teoria della relatività generale di Einstein è corretta, la risposta è che non ci può essere un centro nel nostro universo tridimensionale. Succede la stessa cosa per un pallone: il centro del pallone non sta sulla superficie del pallone ma va cercato in una dimensione diversa. Così anche per l’universo: il suo centro non è collocato nella “superficie” a tre dimensioni entro la quale siamo collocati. Per questo motivo, qualsiasi osservatore nell’universo vedrà questo espandersi nello stesso modo in cui noi vediamo l’espansione, cioè come fossimo al centro dell’universo stesso.
D.02. Quali aspetti cosmologici ha studiato il satellite COBE?
Il satellite COBE (Cosmic Background Explorer) ha confermato in modo molto preciso tra elementi cosmologici:
• la radiazione cosmica di fondo è quella aspettata per un corpo di temperatura di 2,7 gradi sopra lo zero assoluto. Lo spettro di questa radiazione non presenta distorsioni nel senso che non mostra evidenza di sorgenti addizionali di radiazione.
• L’intensità della radiazione è uniforme entro una parte su 10.000 pur presentando una componente dovuta al moto della Terra, del Sole e della Galassia relativamente al fondo della radiazione.
• Nei limiti di una parte su 100.000 sono presenti irregolarità di larga scala coerenti con le previsioni teoriche circa l’eterogeneità dei gas primordiali. L’addensamento di questi gas ha poi portato alla formazione di galassie e di tutte le strutture osservate nell’universo attuale.
In sostanza il satellite COBE ha confermato le previsioni chiave fatte dalla cosmologia del big bang e, assieme alle osservazioni compiute dal Telescopio Spaziale Hubble, ha aperto nuove prospettive sullo studio dell’epoca in cui si sono venute a formare le prime galassie, un miliardo di anni dopo il big bang.
D.03. Che cosa sono i QSO?
I Quasi–Stellar Objects (o QSO) sono definiti come oggetti che appaiono sulle lastre fotografiche come delle stelle, cioè puntiformi, ma che possiedono uno spettro fortemente spostato verso il rosso. In base alla legge di Hubble sono quindi oggetti extragalattici. Data la distanza, la luminosità di un QSO è molto maggiore di una galassia ordinaria: in aggiunta, molti QSO mostrano variazioni della loro luminosità in periodi di pochi giorni e ciò suggerisce che le loro dimensioni debbano essere di pochi giorni luce.
Nel modello standard i QSO come i quasar, sono considerati come i nuclei di galassie e costituiscono l’esempio più estremo nella classe di galassie che presentano nuclei particolarmente attivi (le galassie AGN).
Questi nuclei sono delle regioni molto compatte che emettono una quantità di radiazione molto maggiore di quella aspettata se vi fossero in quelle regioni solo stelle. Dall’entità dell’energia emessa si deduce la presenza di una concentrazione di massa pari ad alcuni milioni di masse solari. Per la maggior parte degli astronomi, l’unica alternativa possibile è supporre l’esistenza in questi nuclei di buchi neri, attorno ai quali avviene il collasso di grandi quantità di materia.
D.04. Che cosa sono i neutrini?
II neutrino è una particella simile all’elettrone, nel senso che non risente dell’intensa forza nucleare che agisce invece sui protoni e sui neutroni. A differenza dell’elettrone, il neutrino, essendo elettricamente neutro, non è sensibile neppure alle forze elettriche o magnetiche come quelle che trattengono all’interno degli atomi gli elettroni. In effetti i neutrini rispondono solo alla forza gravitazionale e a una debole forza responsabile di alcuni processi radioattivi. Per tutti questi motivi rilevare il neutrino è un'impresa impegnativa.
Il modello standard del big bang presuppone che vi debba essere una grande quantità di neutrini ancora presenti nell’universo attuale. In particolare, per ogni particella nucleare, vi sarebbe circa un miliardo di neutrini: il fatto è che, data la loro scarsa interazione con la materia, nessuno sa ancora come rivelare questa loro presenza! La rivelazione di un fondo cosmico di neutrini alla temperatura di 2 gradi assoluti, come previsto dalla teoria, costituirebbe comunque la conferma più clamorosa della teoria del big bang.
D.05. Che cos’è l’inflazione dell’universo?
Per poter rendere conto delle dimensioni attuali dell’universo è stata proposta una modifica alla teoria del big bang che prende il nome di teoria inflazionaria. Questa teoria ipotizza che nei primissimi istanti dell’universo, tra 10-43 e 10-35 secondi dopo l’istante zero, vi sia stata una rapidissima espansione (l’ inflazione) dell’universo che ne aumentò di diversi ordini di grandezza le dimensioni. Dopo questa fase l’universo continuò ad espandersi al ritmo previsto dalla teoria standard. Questa teoria rende conto pure dei recenti risultati del satellite COBE che hanno evidenziato lievissime anisotropie nella radiazione cosmica di fondo.