Guardando il cielo sereno di notte, possibilmente distante dalle luci della città, si vedono chiaramente molte stelle. Se poi si abita in montagna, questa “esperienza” in certe notti invernali può essere entusiasmante. Comunque appare evidente che, in un qualche modo, la natura è riuscita a creare una quantità incalcolabile di stelle. Per la sola nostra Via Lattea il loro numero si aggira attorno ai 100 miliardi. Come se ciò non bastasse, ancora oggi continuano a nascere stelle, a 10 o 20 miliardi di anni dall’inizio dell’Universo.
Per secoli le stelle hanno simboleggiato la permanenza, l’immutabilità e la perfezione del cosmo, in contrasto con la mutevolezza delle sorti terrestri ed umane. Eppure anche le stelle nascono, vivono e muoiono. Ma come si formano le stelle? A quali trasformazioni vanno incontro prima di assestarsi nella condizione, relativamente stabile, nella quale si trova oggi il nostro Sole? Come muoiono? A queste domande cercheremo di rispondere in questo incontro.
Dal punto di vista fisico una stella è una sfera di gas caldo tenuta insieme dalla propria gravità. Sono il calore e la pressione sviluppati dalle reazioni nucleari che si svolgono al suo interno, soprattutto la fusione dell’idrogeno in elio, a impedire che la stella collassi per l’effetto stesso della propria attrazione gravitazionale. La vita di questo sistema ha uno svolgimento ben definito: le stelle nascono condensandosi da una nube diffusa di gas interstellare e muoiono quando, esaurito il combustibile nucleare, scompaiono alla vista trasformandosi in nane bianche, stelle di neutroni o buchi neri.
Da quanto detto si potrebbe dedurre che descrivere nei particolari la nascita di una stella e le prime fasi della sua evoluzione non debba presentare delle difficoltà di rilievo; tuttavia la complessità delle interazioni tra la pressione termica proveniente dall’energia prodotta nel nucleo e la gravità induce nelle stelle giovani comportamenti che potrebbero sembrare controintuitivi. Pensiamo ad esempio, quale dovrebbe essere l’evoluzione della luminosità di una stella cioè quale potrebbe essere l’andamento della quantità di energia che la stella emette attraverso la sua superficie nell’unità di tempo: dato che la temperatura interna di una stella in formazione è troppo bassa per indurre la fusione dell’idrogeno, anche la luminosità dovrebbe essere relativamente bassa, per crescere quando inizia la fusione e poi affievolirsi progressivamente. Una stella giovanissima è invece estremamente luminosa e si affievolisce al passare del tempo, raggiungendo un minimo temporaneo proprio nel momento in cui ha inizio la fusione nucleare dell’idrogeno.
È evidente quindi che durante le primissime fasi di vita delle stelle, si deve verificare tutta una serie di fenomeni fisici che solo negli ultimi 20 anni si è cominciato a comporre in una teoria sufficientemente organica.
Le stelle condensano per effetto della propria gravità a partire da grandi nubi, non osservabili nella regione visibile dello spettro ma che sono presenti in gran quantità nel disco delle galassie a spirale, denominate complessi giganti di nubi molecolari. Il termine “molecolari” indica che il gas è costituito per lo più da idrogeno allo stato molecolare (quindi come il comune idrogeno qui sulla terra, molecola costituita dal legame i due atomi di idrogeno). Questi sistemi, il cui diametro raggiunge a volte i 300 anni luce, sono le strutture più massicce della Galassia.
Un più attento esame rivela che le stelle si sviluppano da addensamenti isolati contenuti nei complessi giganti di nubi molecolari, i cosiddetti nuclei densi. Per lo studio delle proprietà di tali strutture si usano i radiotelescopi, gli unici strumenti in grado di rivelare la debole radiazione a lunghezze d’onda millimetriche proveniente dalle nubi molecolari in particolare da gas quali il monossido di carbonio (CO) e monosolfuro di carbonio. Studiando l’emissione di questi gas si è visto che di norma, un nucleo denso ha un diametro di alcuni mesi luce, una densità di 30.000 molecole di idrogeno per centimetro cubo e una temperatura di circa 10 gradi kelvin. In queste condizioni la pressione esercitata dal gas di un nucleo denso è quasi esattamente quella necessaria a bilanciare l’azione di compressione dovuta all’attrazione della gravità del nucleo stesso.
Figura 9: Collasso di un nucleo denso.
Lo stato a partire dal quale il nucleo si contrae in una stella è quindi uno stato leggermente instabile in cui la forza di gravità è appena più intensa della pressione. Se non è ancora ben chiaro come faccia il nucleo denso stesso a condensare dal complesso di nubi molecolari che lo contiene, è invece abbastanza conosciuta l’evoluzione che può subire uno di tali nuclei. Vediamo le linee principali (fig. 9).
Tutte le simulazioni sviluppate indicano che le nubi in condizioni di instabilità non eccessiva collassano partendo dall’interno verso l’esterno. Ciò significa che il materiale più vicino al centro è il primo a subire un vero e proprio collasso con caduta libera, mentre il gas situato più all’esterno rimane ancora fermo. In seguito il confine della regione che partecipa al collasso si espande progressivamente all’esterno attraverso la nube.
Nel cuore della regione che subisce il collasso le collisioni tra masse di gas cominciano a dare origine alla stella. Questa ha un diametro di un secondo luce appena, pari a un decimilionesimo di quello del nucleo denso cosicché il parametro che più conta è la quantità di materia che vi cade ossia in termini più tecnici la velocità di accumulo (o accrescimento). Per un nucleo denso normale tale velocità raggiunge valori di una massa solare in un periodo compreso tra 100.000 anni e un milione d’anni.
L’oggetto che si forma al centro della nube che subisce il collasso si chiama protostella.
Sempre tramite le simulazioni al computer si è riusciti a realizzare un modello capace di descrivere la fase protostellare. In tal modo si è quindi scoperto che il gas in caduta collide con la protostella a velocità molto elevata, tanto da non riuscire a rallentare prima di raggiungerne la superficie. Il gas viene invece a scontrarsi con un fronte d’urto molto netto consistente in una brusca variazione della pressione, che lo arresta rapidamente. All’interno di questo fronte d’urto il gas si riscalda fino a quasi un milione di gradi e poi si raffredda rapidamente fino a 10.000 gradi andando a depositarsi sulla protostella in formazione.
Questo fronte d’urto consente di spiegare la grande luminosità delle stelle giovani. Se la massa della protostella è pari ad una massa solare, la luminosità emessa dal gas quando incontra il fronte d’urto supera di 10-60 volte quella del Sole. L’estrema brillantezza di queste stelle appena nate non è quindi dovuta alla fusione nucleare, come avviene nelle stelle normali, ma all’energia cinetica della materia che viene attratta verso il centro dalla gravità.
Interessante è pure capire come si possa osservare l’emissione luminosa delle protostelle. In tal caso i telescopi ottici non sono particolarmente utili mentre risultano fondamentali i telescopi ad infrarosso montati su satelliti.
Tutto il gas dello spazio interstellare, compreso quello da cui si formano le stelle, contiene polvere formata da particelle solide di dimensioni inferiori al millesimo di millimetro. I fotoni (cioè la luce) che si propagano verso l’esterno a partire dal fronte d’urto finiscono così per incontrare grandi quantità di questi granuli di polvere, granuli che sono in caduta verso il centro insieme al gas del nucleo denso originario (fig. 10). La polvere non riesce a raggiungere la superficie della protostella perché il calore intenso emesso dal fronte d’urto la vaporizza; la regione nella quale si verifica questa vaporizzazione prende il nome di intervallo di opacità. Più all’esterno invece la temperatura è abbastanza bassa da permettere l’esistenza dei granuli di polvere. I granuli freddi assorbono i fotoni prodotti nel fronte d’urto e li riemettono a lunghezze d’onda maggiori; questi nuovi fotoni verranno poi assorbiti a loro volta da polvere ancora più lontana dal centro. I fotoni quindi si fanno strada attraverso la materia che costituisce la nube lungo percorsi tortuosi, fino a che la loro lunghezza d’onda media cade ben addentro alla regione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Ad una distanza dal centro che corrisponde ad alcune ore luce dalla protostella e che delimita la cosiddetta fotosfera di polvere, la lunghezza d’onda dei fotoni diventa troppo grande perché essi vengano assorbiti dalla polvere; i fotoni possono quindi raggiungere senza altri ostacoli i telescopi per l’infrarosso sulla Terra.
Figura 10: Interazioni della protostella con la materia.
In casi particolari le protostelle, ancora trasparenti nell’infrarosso, possono essere osservate pure nel visibile come regioni oscure che spiccano sullo sfondo brillante della Via Lattea o di una nebulosa brillante: sono i cosiddetti globuli di Bok.
Quando la protostella ha accumulato abbastanza materia da raggiungere una massa pari a qualche decimo di quella del Sole, la temperatura al centro diventa sufficiente per indurre la fusione nucleare. Nelle protostelle però, il processo assume caratteristiche molto diverse da quelle che si osservano nelle stelle della sequenza principale, stelle di mezza età come il Sole che si trovano in uno stato di equilibrio a lungo termine. In queste stelle la reazione principale è quella di fusione dei nuclei di idrogeno.
L’idrogeno è l’elemento chimico più comune nell’universo. Nel Big Bang esso è stato prodotto soprattutto nella sua forma isotopica normale, di atomo con un nucleo costituito da un solo protone. Circa due nuclei di idrogeno su 100.000 sono però nuclei di deuterio, costituiti da un protone e un neutrone; questo isotopo fa parte, come l’idrogeno, del gas interstellare che viene a essere inglobato nelle nuove stelle. È davvero sorprendente quanto sia importante il ruolo che questa impurezza in traccia svolge nella vita delle protostelle. L’interno di una protostella non è ancora abbastanza caldo da permettere la fusione dell’idrogeno normale, una reazione che si verifica a una temperatura di 10 milioni di gradi, ma raggiunge facilmente, grazie alla compressione dovuta alla forza di gravità, la temperatura di un milione di gradi necessaria ad avviare la fusione del deuterio, anch’essa in grado di emettere notevoli quantità di energia.
Poiché la materia che costituisce la protostella è già troppo opaca per trasmettere questa energia per irraggiamento cioè attraverso radiazione, la stella diviene instabile dal punto di vista convettivo: bolle di gas riscaldato dalla combustione nucleare cominciano a risalire verso la superficie. A equilibrare questo moto ascensionale provvede la discesa di gas più freddo verso il centro; si instaura così una circolazione convettiva analoga a quella che avviene, su scala evidentemente diversa, in una stanza riscaldata da un calorifero. In una protostella però, i vortici circolanti trascinano l’altro deuterio che si è appena depositato sulla superficie, trasportandolo rapidamente verso il centro dove subisce fusione e libera altra energia. Il flusso discendente del ciclo convettivo apporta quindi continuamente nel centro della protostella il combustibile necessario ad alimentare sia la fusione nucleare sia la convezione stessa.
Benché la concentrazione dei nuclei di deuterio sia bassa, il calore liberato durante la fusione ha un influsso notevole sulla protostella. L’effetto principale della combustione del deuterio è di far espandere la stella: dato che la convezione è un sistema efficiente di distribuzione del calore, l’entità dell’espansione dovuta alla fusione del deuterio è una caratteristica che dipende solo dalla massa dell’oggetto. In una protostella di 1 Mo (con Mo intenderemo da qui in avanti, la massa del Sole) il raggio diventa pari a 5 raggi solari, mentre una protostella di 3 Mo, può espandersi fino a raggiungere i 10 raggi solari.
Un tipico nucleo denso contiene evidentemente più massa di quella che alla fine andrà a costituire la nuova stella. Deve quindi esistere un qualche meccanismo capace di espellere la massa in eccesso e arrestare l’accrescimento. La grande maggioranza degli astronomi è convinta che il responsabile sia un vento molto intenso emesso dalla superficie della protostella, che respinge il gas in arrivo fino a disperdere tutto il nucleo denso. A questa ipotesi si giunge in base alle numerose osservazioni di flussi di gas molecolare che si allontanano da sorgenti di radiazione infrarossa. Questo vento, non ancora osservato direttamente, dovrebbe respingere verso l’esterno materia e radiazione a velocità molto maggiore del vento emesso dalle stelle della sequenza principale. La sua causa resta comunque uno dei misteri più fitti dello studio della formazione delle stelle (fig. 11).
Figura 11: Venti protostellari polari e gas in caduta.
Dopo la dispersione del nucleo denso per azione del forte vento uscente dalla protostella, l’oggetto si presenta ora visibile agli strumenti ottici: è una stella del tipo pre–sequenza principale. Queste stelle, come le protostelle, sono molto luminose e anche in questo caso è l’attrazione gravitazionale e non la fusione nucleare a essere responsabile della luminosità. La pressione del gas nell’interno della stella le impedisce di subire un collasso totale; il calore che genera questa pressione, però, viene irradiato dalla superficie della stella che quindi brilla intensamente e si contrae a poco a poco.
Via via che la stella si fa più compatta la temperatura interna aumenta sempre più fino a raggiungere i 10 milioni di gradi circa. A questo punto, l’idrogeno comincia a trasformarsi in elio. L’aumento di pressione dovuto al calore sviluppato da questa reazione blocca la contrazione e la stella entra nella sequenza principale. Al Sole, una tipica stella alimentata dalla combustione dell’idrogeno, sono occorsi circa 30 milioni di anni per contrarsi dalle dimensioni maggiori che aveva da protostella fino a quelle attuali; poi il calore liberato dalla fusione dell’idrogeno ha mantenuto costanti le sue dimensioni per circa 5 miliardi di anni.
La descrizione dell’evoluzione stellare fin qui proposta è coerente con le attuali teorie fisiche e i fenomeni nucleari conosciuti, ma le teorie hanno bisogno del sostegno dei dati e in questo caso, i dati consistono in misurazioni delle caratteristiche di numerose stelle in fasi diverse della loro evoluzione. Il metodo più comodo per esprimere i risultati di queste misurazioni è quello di utilizzare il diagramma di Hertzsprung–Russel, o H-R, dove è possibile sintetizzare l’evoluzione delle stelle osservabili nella banda ottica.
Il diagramma H-R riporta in ordinata la luminosità delle stelle e in ascissa la loro temperatura superficiale. Le stelle della sequenza principale, come il Sole, che sono alimentate dalla fusione dell’idrogeno, si dispongono su una curva che attraversa il diagramma in diagonale. Il maggiore o minore scostamento da questa dipende da un unico parametro, la massa della stella.
Le stelle pre–sequenza principale, essendo più luminose di quelle di pari massa della sequenza principale, si trovano pertanto al di sopra della curva di quest'ultimo nel diagramma H-R. La luminosità diminuisce col passare del tempo perché la contrazione della stella riduce l’area superficiale capace di emettere radiazione. Ne consegue che il punto rappresentativo della stella si sposta lungo un percorso ben definito, uguale per tutte le stelle di una certa massa, chiamato traccia di Hayashi, astronomo dell’università di Kyoto che per primo negli anni sessanta calcolò le caratteristiche delle stelle di pre–sequenza. Nella fig. 12 si rappresentano le tracce di Hayashi per protostelle con masse da 0,1 Mo a 3 Mo. Le stelle pre–sequenza principale entrano nel diagramma sulla curva della nascita (tratteggiata nella figura) e si spostano lungo linee ben precise fino a raggiungere la sequenza principale.
Figura 12: Diagramma H-R e tracce di Hayashi.
Le osservazioni di ammassi giovani vicini (gruppi di stelle inframmezzate da gran quantità di gas) hanno rivelato che molte stelle che li costituiscono si trovano al di sopra della sequenza principale. Quelle che si trovano vicino alle tracce di Hayashi corrispondenti a masse pari o inferiori a quella del Sole sono denominate stelle T Tauri, mentre le loro controparti di massa maggiore si chiamano oggetti Herbig Ae e Be. Le posizioni osservate delle stelle T Tauri e di quelle Herbig Ae e Be e delle stelle che espellono flussi di gas sono coerenti con la teoria: sono comprese tra la curva della nascita e la sequenza principale. La stessa teoria fornisce i tempi di permanenza delle prime fasi evolutive: questi sono riassunti dalla tabella 3 e confermano ancora una volta come le stelle di grande massa percorrano anche queste fasi in modo molto più rapido di quelle con masse prossime o inferiori ad una Mo.
Tabella 3: Tempi di permanenza nelle prime fasi evolutive.
I modelli che descrivono la nascita delle stelle “prevedono” un sottoprodotto di notevole importanza: i dischi circumstellari. Si ritiene che siano questi dischi a costituire la materia prima per la formazione dei sistemi planetari (fig. 13).
Un disco si forma perché, come già notato, non tutta la materia che collassa all’interno di un nucleo denso raggiunge direttamente la protostella. Inoltre il processo, qualunque esso sia, che ha dato origine al nucleo denso deve aver quasi sicuramente impresso al sistema una rotazione all’inizio del collasso. Per questo motivo quando nel nucleo denso in rotazione il gas più esterno inizia a cadere verso la protostella, se la rotazione è sufficiente, questo può anche non raggiungerla. Il gas si dispone allora in orbita attorno alla protostella e assume via via una forma a disco.
Recentemente sono state ottenute diverse indicazioni dell’esistenza di tali dischi e sono oramai diverse le immagini che mostrano la presenza di materia in forma di veri e propri dischi circumstellari attorno a stelle giovani.
Figura 13: Risultato di una simulazione in un sistema stella–disco.
L’assestarsi di una stella nella fase di sequenza principale cioè l’entrata nella sua “vita adulta” con la combustione per fusione nucleare dell’idrogeno presente nel nucleo, non significa necessariamente che questo lungo periodo si accompagni ad una fase di stabilità nella emissione luminosa. In altri termini non è detto che una stella mantenga (come farà il Sole) una luminosità sostanzialmente costante per tutto questo periodo. In effetti questo scenario è applicabile solo nel caso che le stelle non appartengano a sistemi stellari dove due o più stelle interagiscono fortemente tra di loro cioè se non appartiene a sistemi doppi (o tripli ... ). Se la stella appartiene ad un tale sistema, e sono la maggioranza, l’evoluzione stellare subisce variazioni significative e, come vedremo, possono produrre eventi di notevole interesse, quali esplosioni di parti consistenti della stella.
Il termine latino “novae”, introdotto alla fine del Cinquecento da Tyco Brahe, vuole designare quelle stelle apparse improvvisamente in cielo e mai osservate prima. Nel corso dei secoli furono osservate di tanto in tanto in cielo “stelle nuove” apparse là dove non erano mai state viste stelle. Con la strumentazione moderna, ogni anno si possono osservare una dozzina di queste brusche variazioni nella luminosità di alcune stelle, benché la gran parte di esse non possono essere apprezzate a occhio nudo. Anche oggi quindi, questo fenomeno è noto come l’apparizione di una nova. Ma a che cosa è dovuto questo improvviso aumento di splendore, in alcuni casi pari anche ad un milione di volte la luminosità normale?
Partiamo dalla constatazione che la maggioranza delle stelle appartiene a sistemi binari. Poiché inoltre in questi sistemi le masse delle due componenti sono generalmente diverse, diverse possono essere le tracce evolutive di ciascuna in quanto il periodo di appartenenza alla sequenza principale è legato alla massa stellare. In particolare a massa maggiore corrisponde una maggiore efficienza delle reazioni e quindi una vita media minore. Sappiamo pure che il prodotto finale dell’evoluzione stellare sono le nane bianche, stelle che concentrano una quantità di materia pari a quella del Sole in un volume non superiore a quello della Terra.
Consideriamo quindi un sistema binario assai allargato, in cui un membro ha massa molto maggiore dell’altro (fig. 14–a). La stella di grande massa, attorno alla quale orbita l’altra, evolve rapidamente, trasformando in elio il proprio idrogeno tramite il ciclo CNO che coinvolge il carbonio, l’azoto e l’ossigeno. Alla fine di questa fase la stella diventa una gigante rossa e si espande, inglobando la compagna più piccola.
Le due stelle continuano a orbitare una intorno all’altra all’interno dell’involucro gassoso comune, cedendo a questo energia. In seguito a questo trasferimento di energia, il gas viene espulso dal sistema e le due stelle si avvicinano progressivamente l’una all’altra lungo un percorso a spirale (fig. 14–b). Alla fine, quando tutta la materia della stella più grande che si estendeva oltre l’orbita di quella più piccola è andata perduta, il periodo di evoluzione nell’“involucro comune” ha termine, e il sistema si trasforma in una binaria stretta (fig. 15–c).
La stella di grande massa inoltre, avendo oramai consumato tutto il proprio combustibile, è diventata una nana bianca compatta, mentre la sua compagna è rimasta più o meno com’era all’inizio, in sequenza principale.
Per la estrema vicinanza delle due stelle (si pensi che il periodo orbitale può anche essere di poche ore) la compagna della nana bianca perde via via del gas che, dopo aver formato un disco di accrescimento che turbina attorno alla nana bianca centrale, cade sulla superficie di quest'ultimo (fig. 15–c). Essendo ricco di idrogeno questa materia va a rifornire la nana bianca di nuovo combustibile. La gravità molto intensa della nana bianca rende conto degli eventi successivi. Difatti questa comprime il gas durante la caduta e se questo, accumulandosi sulla superficie raggiunge valori pari a 100 volte la massa della Terra, la temperatura raggiunge i milioni di gradi necessari per innescare la fusione dei nuclei di idrogeno in elio. La materia diventa quindi ancora più calda, accelerando sempre più la fusione, fino a dare origine a reazioni termonucleari incontrollate come quelle che si hanno in una bomba a idrogeno.
Quando la temperatura nelle profondità degli strati che si sono accumulati supera i 30 milioni di gradi, la materia comincia a mescolarsi in maniera turbolenta con gli strati sovrastanti. La regione di mescolamento si espande verso la superficie, portando con sè calore e materia provenienti dall’interno. Entro pochi minuti gli strati superficiali, insieme con i prodotti della fusione e con elementi del nucleo della nana bianca, sono espulsi nello spazio con un fantasmagorico lampo di luce (fig. 15–d). ... E una “stella nova” illumina il cielo.
Figura 14: Formazione di una nova (a,b).
Figura 15: Formazione di una nova (c, d, e).
Nessuno ha mai osservato i primissimi minuti dell’esplosione di una nova. Le simulazioni prevedono che la temperatura in superficie possa superare il milione di gradi e che i gas caldissimi possano essere espulsi a una velocità di oltre 5000 km/s. In seguito all’aumento improvviso di volume, il gas si raffredda; entro poche ore la radiazione emessa passa dalla regione X dello spettro a quella ultravioletta, di minor energia. Contemporaneamente l’area del gas aumenta, rendendo la nova sempre più brillante anche se la sua temperatura va diminuendo. Poi, con un'ulteriore espansione e raffreddamento, gradualmente la luminosità complessiva inizia a diminuire riprendendo, dopo un periodo di poche settimane o pochi mesi, i valori iniziali. Dopo qualche anno potremo fotografare una nube in espansione attorno all’astro.
Il ciclo può quindi ricominciare e la nana bianca può risucchiare dell’altra materia alla vicina. Ancora, dopo un periodo di un centinaio di migliaia di anni, si potrà osservare un’altra esplosione. Alla fine che cosa rimane? Di certo questa successione di eventi lascia una binaria stretta (fig. 15–e) con masse complessivamente inferiori a quelle iniziali ma ancora non si conosce quale possa essere l’effetto a lungo termine di una serie di esplosioni di nova sull'evoluzione sia della nana bianca che della stella compagna di sequenza principale.
Un meccanismo del tutto diverso sta invece all’origine delle esplosioni di supernova. La morte di una grande stella è un fenomeno improvviso e violento. La stella si evolve tranquillamente per milioni di anni attraverso numerosi stadi di sviluppo, ma, quando, il combustibile nucleare si esaurisce, collassa sotto il proprio peso in meno di un secondo. Gli eventi principali del collasso durano appena qualche millesimo di secondo. Quello che segue è una supernova, un'esplosione incredibile, la più potente dopo il Big Bang che ha dato origine all’universo.
Una singola stella che esplode può splendere più di un'intera galassia che ne contiene miliardi e irradiare in pochi mesi tanta luce quanta ne emette il Sole in un miliardo d’anni. La luce e le altre forme di radiazione elettromagnetica, inoltre, costituiscono solo una piccola percentuale dell’energia totale della supernova. L’energia cinetica cioè l’energia di moto della materia che esplode è 10 volte più dell’energia elettromagnetica, e una quantità ancora maggiore, viene allontanata dai neutrini, particelle prive di massa, emessi prevalentemente in un lampo che dura circa un secondo. A esplosione avvenuta, quasi tutta la massa della stella si è dispersa nello spazio, e tutto quello che rimane al centro è scoria densa e scura che in certi casi, può sparire a sua volta in un buco nero.
Le supernovae sono eventi rari. Nella nostra galassia ne sono state osservate solo tre negli ultimi 1000 anni; la più luminosa, registrata dai cinesi nel 1054, ha dato origine al guscio di gas in espansione che oggi è noto come Nebulosa del Granchio. Se si potessero osservare solo eventi così vicini, le conoscenze sulle supernovae sarebbero assai scarse. Data la loro grande luminosità però, questi oggetti si possono osservare anche in galassie lontane, e attualmente gli astronomi ne scoprono almeno una decina l’anno. In tempi recenti, la più vicina è stata la oramai famosa, supernova 1987A, osservata appunto nel febbraio del 1987 (v. 7.4).
Una supernova è un epilogo insolito e spettacolare della successione di reazioni nucleari che costituisce la vita di una stella e ne scandisce la storia. Il calore liberato dalla fusione nucleare genera una pressione in grado di controbilanciare l’attrazione gravitazionale che altrimenti farebbe collassare il sistema. L’effetto netto della prima serie di reazioni è la saldatura di quattro nuclei di idrogeno in un unico nucleo di elio. Il processo è vantaggioso dal punto di vista energetico: la massa del nucleo dell’elio è leggermente inferiore alla somma delle masse dei quattro nuclei di idrogeno e l’equivalente in energia della massa eccedente si libera sotto forma di calore.
Il processo prosegue nel nucleo della stella fino all’esaurimento dell’idrogeno che vi si trova. A questo punto il nucleo si contrae, perché non esiste più produzione di energia che si contrapponga alla gravità, e di conseguenza si riscalda insieme al materiale circostante, dando inizio alla fusione dell’idrogeno negli strati circostanti. Nel frattempo il nucleo diventa abbastanza caldo da innescare altre reazioni di fusione, quelle che bruciano elio formando carbonio, e poi il carbonio stesso con formazione di neon, ossigeno e infine silicio, tutte reazioni che portano ancora a una liberazione di energia. Un ultimo ciclo della fusione combina nuclei di silicio e forma ferro, e precisamente il suo isotopo comune Fe-56, costituito da 26 protoni e 30 neutroni. Per la fusione nucleare spontanea questo è il capolinea: il nucleo di Fe-56 è quello con i legami più forti e una ulteriore fusione assorbirebbe energia invece di liberarne.
Figura 16: Esplosione di una supernova massiccia.
A questo stadio della sua esistenza la stella ha una struttura a cipolla, con un nucleo di ferro e di altri elementi affini circondato da un guscio di silicio e di zolfo, oltre il quale si trovano strati di ossigeno, carbonio ed elio (fig. 16). L’involucro più esterno è costituito prevalentemente da idrogeno.
Solo le stelle più grandi percorrono fino in fondo la sequenza evolutiva che porta allo stadio finale, quello in cui la stella ha un nucleo di ferro. Una stella grande come il Sole non va oltre la fusione dell’elio e le più piccole si fermano all’idrogeno.
Le stelle più grandi, inoltre, esauriscono più in fretta la riserva di combustibile, anche se all’inizio ne hanno una provvista maggiore; dato che nelle stelle più grandi la pressione e la temperatura interne sono maggiori, il combustibile brucia più velocemente. Mentre il Sole dovrebbe avere 10 miliardi di anni di vita, una stella con massa 10 volte maggiore può completare la propria evoluzione 1000 volte più velocemente. Qualunque sia il tempo impiegato, alla fine il combustibile utilizzabile del nucleo sarà completamente esaurito. A questo punto la produzione di calore nella regione centrale ha termine e la stella deve contrarsi.
Quando ha termine la fusione, una stella di piccola massa si contrae lentamente e va trasformandosi in una nana bianca, una stella esaurita che irradia solo un fioco bagliore e che, se isolata, può rimanere in questo stato indefinitamente, senza mutamenti degni di nota a parte un raffreddamento graduale.
Ma che cosa arresta l’ulteriore contrazione di una stella? A questa domanda ha risposto più di 50 anni fa lo scienziato indiano Chandrasekhar. È abbastanza evidente che, quando la materia comune viene compressa, l’aumento di densità è dovuto alla riduzione dello spazio libero tra gli atomi. Nel nucleo di una nana bianca questo processo giunge al limite: gli elettroni degli atomi sono fortemente schiacciati gli uni contro gli altri. In queste condizioni offrono una grande resistenza a un'ulteriore compressione.
Chandrasekhar ha dimostrato che esiste un limite alla pressione alla quale può resistere la repulsione reciproca degli elettroni (che, ricordiamo, possiedono la medesima carica elettrica). Se la contrazione si spinge molto avanti si raggiunge un raggio particolare, dove le due forze opposte (gravitazionale e di repulsione) si equilibrano. Tale raggio dipende dalla massa della stella. Questo equilibrio è comunque possibile solo se la massa non supera un certo valore critico che oggi prende il nome di massa di Chandrasekhar; se invece è maggiore di questo limite la stella è costretta a collassare. Nelle stelle piccole dove la catena delle reazioni di fusione si ferma al carbonio la massa di Chandrasekhar è 1,44 masse solari, la più grande massa stabile possibile per una nana bianca.
Una nana bianca con massa al di sotto del limite di Chandrasekhar può rimanere stabile indefinitamente; eppure si pensa che siano proprio queste stelle a dare origine alle supernovae di tipo I. Com’è possibile? Il punto cruciale è che le nane bianche destinate ad esplodere come supernovae non sono stelle isolate, ma membri di sistemi binari. Come già esposto nel paragrafo 6.1 sulle novae, si ipotizza che la materia della compagna venga attirata dall’ intenso campo gravitazionale della nana e cada progressivamente sulla sua superficie, aumentando la massa del nucleo di carbonio e ossigeno. Alla fine il carbonio al centro si accende e brucia in un'onda che si muove verso l’esterno distruggendo la stella. Questo meccanismo è il responsabile per le supernovae di tipo I.
Le supernovae di tipo II derivano da stelle di massa molto maggiore, a partire da un limite inferiore che oggi si valuta in circa otto masse solari.
Per ripercorrere la storia di una supernova di tipo II conviene iniziare nel momento in cui al centro della stella diventa possibile la fusione di nuclei di silicio con formazione di ferro. A questo punto la stella ha già attraversato gli stadi contraddistinti dalla fusione dell’idrogeno, dell’elio, del neon, del carbonio, e dell’ossigeno e ha assunto la struttura a cipolla descritta precedentemente (paragrafo 7.1). Per raggiungere questo stato sono occorsi diversi milioni di anni; gli eventi successivi sono però molto più veloci (fig. 17).
All’avvio della reazione finale di fusione, al centro della stella comincia a formarsi un nucleo di ferro e di alcuni elementi affini circondato da un guscio di silicio. Al confine tra i due la fusione prosegue, aggiungendo continuamente massa al nucleo di ferro dentro il quale però, non si produce più energia mediante reazioni nucleari. Il nucleo della stella, una sfera inerte ad alta pressione, si trova quindi nella stessa situazione di una nana bianca: può opporsi alla contrazione solo grazie alla pressione degli elettroni, che è soggetta al limite di Chandrasekhar.
Una volta iniziata, la fusione dei nuclei di silicio procede a velocità estremamente elevata e la massa del nucleo della stella arriva al limite di Chandrasekhar in appena un giorno circa (fig. 17). Una volta raggiunta la massa di Chandrasekhar, il ritmo accelera ancor di più; il nucleo della stella che era stato costruito in un giorno collassa in meno di un secondo. Vediamo nei particolari le fasi iniziali dell’implosione del nucleo di una tale stella.
Figura 17: Evoluzione della fusione in una stella di grande massa.
Uno dei primi punti da sottolineare è che la compressione fa aumentare la temperatura del nucleo e questo potrebbe far aumentare la pressione e far rallentare il collasso (abbiamo difatti più volte utilizzato questo ‘meccanismo’); in realtà il riscaldamento in questo caso ha proprio l’effetto opposto. Per capire ciò va tenuto presente che la pressione è determinata da due fattori: il numero delle particelle e la loro energia media. Nel nucleo della stella vi contribuiscono sia i nuclei atomici sia gli elettroni, ma la componente più importante è quest'ultimo. Quando nel nucleo della stella la temperatura aumenta, una piccola frazione dei nuclei di ferro si scinde in nuclei più piccoli, aumentando il numero delle particelle nucleari e quindi la frazione nucleare della pressione. Nel frattempo però, questo fatto assorbe energia; difatti se la formazione di un nucleo di ferro libera energia, per scinderlo è necessario fornirne la stessa quantità. Questa energia è ceduta dagli elettroni, la cui pressione così diminuisce. La diminuzione di pressione dovuta agli elettroni è più importante dell’aumento di pressione nucleare e il risultato netto è, come detto, un'accelerazione del collasso.
Vi è un altro importante effetto che va tenuto in debito conto: l’elevata densità del nucleo della stella che collassa favorisce la cattura di elettroni, un processo nel quale un protone e un elettrone si uniscono e formano un neutrone e un neutrino. Questo sfugge dalla stella sottraendole energia (ed entropia) e raffreddando il sistema proprio come l’evaporazione del sudore rinfresca il corpo. La perdita dell’elettrone per questa via diminuisce comunque la pressione degli elettroni permettendo un'ulteriore accelerazione dell’implosione.
Il primo stadio del collasso di una supernova ha termine quando la densità raggiunge un valore di circa 4 × 1011 grammi per centimetro cubo. Non è certo il massimo possibile, tanto che la contrazione del nucleo prosegue, ma segna un cambiamento essenziale nelle proprietà fisiche del sistema: a questa densità la materia diventa opaca ai neutrini.
Quando però la densità supera i 4 × 1011 grammi per centimetro cubo, le particelle di materia sono così ravvicinate che anche un neutrino ha buone probabilità di urtarne una. Di conseguenza, i neutrini emessi dal nucleo in contrazione della stella vi si trovano intrappolati molto bene. La prigionia non è definitiva; dopo essere stato deviato, assorbito e riemesso molte volte un neutrino alla fine deve riuscire a sfuggire, ma impiega più tempo di quanto non duri il resto del collasso. Un valido confinamento dei neutrini vuol dire che dal nucleo della stella non può uscire energia.
In queste condizioni una regione centrale contenente una massa pari alla massa di Chandrasekhar innesca il cosiddetto collasso omologo il che significa un collasso che avviene come un tutto unico conservando la forma del nucleo. Ora l’unica altra speranza per fermare la contrazione consiste nella resistenza alla compressione dei nucleoni cioè di quelle particelle, neutroni e protoni, costituenti i nuclei degli elementi. La situazione comunque non cambia e il collasso non viene impedito finché la densità nella parte centrale del nucleo non arriva a circa 2,7 × 1014 grammi per centimetro cubo. Questa è la densità appunto della materia dentro un grande nucleo atomico, e in effetti i nucleoni della regione centrale della stella si uniscono e formano un unico nucleo gigantesco. Un cucchiaino di tale materia ha circa la stessa massa di tutti gli edifici di Manhattan messi insieme.
La materia nucleare è estremamente poco comprimibile e, quindi, quando la parte centrale della stella raggiunge la densità dei nuclei atomici, la resistenza a un'ulteriore compressione è fortissima. È questa la causa più importante delle onde d’urto che trasformano il collasso di una stella in un'esplosione spettacolare!
Quando il centro del nucleo della stella raggiunge la densità dei nuclei atomici, si arresta con un sussulto; questo dà origine ad un'onda d’urto che si propaga all’indietro attraverso il mezzo costituito dal nucleo stellare. Nel frattempo sulla sfera compatta nel cuore della stella continua a cadere altro materiale che però si arresta improvvisamente ma non istantaneamente. La comprimibilità della materia nucleare è piccola, ma non nulla e, quindi, ciò porta il collasso oltre il punto di equilibrio, comprimendo la materia nella regione centrale a una densità ancora superiore a quella di un nucleo atomico. Dopo questa fase di schiacciamento massimo la sfera di materia nucleare rimbalza come una palla di gomma che sia stata compressa e ciò genera delle onde che si uniscono all’onda d’urto. Secondo le simulazioni al calcolatore l’onda si propaga verso l’esterno con velocità compresa tra i 30.000 e 50.000 km/s cioè ad una frazione significativa della velocità della luce. Quest'onda arriva alla superficie del nucleo stellare in una frazione di secondo e poi procede attraverso i vari strati a cipolla; dopo qualche giorno riesce a raggiungere la superficie ed erompe in una esplosione violenta. Oltre un certo raggio dal centro, tutto il materiale della stella viene scagliato via; ciò che rimane all’interno si condensa in una stella di neutroni.
In questa esplosione che sconvolge l’inviluppo si crea un gran numero di neutroni che rapidamente si legano l’un l’altro dando origine a isotopi altamente radioattivi. Questo processo può produrre isotopi molto più pesanti del ferro. Quindi diverse masse solari di materiale stellare, arricchito di elementi pesanti che la stella ha creato sia nella fase di supergigante che nell’esplosione di supernova, vengono rilasciate all’improvviso alla velocità di migliaia di chilometri al secondo e restituite allo spazio interstellare. Si produce così un guscio nebulare in espansione.
La stella potrebbe essere vissuta 10 milioni d’anni, eppure in meno di un decimo di secondo il nucleo di ferro collassa su se stesso, fino a diventare una sfera del diametro di 100 chilometri. In quest'attimo la potenza dissipata supera quella irraggiata contemporaneamente da tutte le stelle della galassia: l’energia emessa è 100 volte maggiore di quella che il Sole ha speso nel corso della sua intera esistenza e di questa, il 90% viene trasportata nello spazio dai neutrini prodotti durante la formazione dei neutroni.
Come già detto, le supernovae sono eventi relativamente rari all’interno di una galassia. Nessuna supernova è stata più osservata nella Via Lattea dai tempi di Keplero. La teoria che abbiamo esposto è quindi basata sull'osservazione di supernovae rilevabili nelle galassie più vicine alla nostra. Questo fatto comporta non poche difficoltà agli osservatori, soprattutto perché le supernovae si indeboliscono fino a sparire alla vista nel giro di pochi mesi. Per questo fu un meraviglioso colpo di fortuna per gli astronomi la scoperta di una supernova “vicina” avvenuta il 23 febbraio 1987. La supernova 1987A esplose a soli 170.000 anni luce di distanza, nella Grande Nube di Magellano, che è una galassia satellite della Via Lattea. La 1987A è una delle pochissime supernovae delle quali era stata osservata la stella progenitrice, anni prima che avvenisse l’esplosione. Va detto che questa stella non si accordava esattamente con le aspettative teoriche, essendo una gigante di color blu e non di colore rosso, ma l’anomalia (che ora viene spiegata dalle teorie riviste) è trascurabile rispetto alle molte e significative conferme ricevute dai modelli teorici. La stella esplosa aveva una massa di circa 20 masse solari, e questo quadra con l’ipotesi di un collasso del nocciolo. Ma la cosa più importante è che due rivelatori sotterranei di neutrini, il Kamiokande II in Giappone e l’IMB di Cleveland (Ohio), riuscirono ad intercettare una manciata di neutrini (una decina!) prodotti nel corso del collasso e della trasformazione del nocciolo stellare in neutroni. Questi neutrini, dopo aver attraversato il guscio atmosferico della stella e percorso un così lungo tragitto intergalattico, raggiunsero la Terra poco distanziati gli uni dagli altri, in un “lampo” che durò meno di un minuto: il loro arrivo precedette di diverse ore l’istante in cui i telescopi ottici poterono osservare l’onda d’urto che erompeva dalla superficie della stella.
Questa rivelazione di neutrini ha rappresentato la prima conferma diretta che l’esplosione di una supernova è connessa al collasso di un nucleo stellare. E come conseguenza di questi successi si può dire che nel 1987 abbia avuto inizio l’era dell’astronomia dei neutrini.
L’oggetto numero 1 del catalogo Messier è una macchiolina diffusa, non difficile da osservare al telescopio nei pressi della zeta Tauri, chiamata Crab Nebula o Nebulosa del Granchio per il suo aspetto filamentoso. Già nel 1921 essa fu identificata con la “stella ospite” segnalata dai cinesi nel 1054, la più brillante supernova mai osservata, che appunto comparve in quella stessa zona celeste. Nel 1941 il nesso fu accertato in modo incontrovertibile. Nel corso degli anni precedenti gli astronomi avevano seguito i filamenti che nel loro moto espansivo si allontanavano dal centro alla velocità di circa 0,2"/anno. Per raggiungere l’attuale diametro angolare di 3' l’espansione dovette iniziare circa intorno all’anno 1100.
La Nebulosa del Granchio produce righe di emissione dalle quali, in base all’effetto Doppler, si deduce una velocità radiale di espansione di 1300 km/s. La combinazione delle velocità angolare e radiale porta a stimare la distanza in circa un migliaio di parsec. Anche tenendo conto dell’indebolimento della luce per assorbimento interstellare, la magnitudine visuale assoluta dovette essere di circa -17, che è grosso modo il valore corretto per una supernova di tipo II. Oggi, nove secoli dopo la grande esplosione, noi osserviamo una nube di ceneri gassose ancora ribollenti, arricchite di metalli: sono i resti di una supernova che si disperdono nello spazio dove in origine si condensò la stella.
Abbiamo visto che, negli eventi esplosivi di tipo II il nucleo di ferro della stella implode. Ciò era stato previsto da due astronomi (Baade e Zwicky) già nel 1934 ma all’epoca non furono in grado di dimostrare la fondatezza della loro ipotesi. Dopo l’espulsione degli strati esterni di una stella, resta quindi da determinare il destino del nucleo. E la conferma della loro ipotesi venne solo nel 1967.
Anthony Hewish, un radioastronomo inglese, aveva progettato un radiotelescopio per analizzare i rapidi cambiamenti che si verificano nell’intensità del segnale di radiosorgenti puntiformi (quali i quasar) quando queste onde radio attraversano il vento solare.
Una studentessa ventiquattrenne Jocelyn Bell, impegnata a perseguire il dottorato di ricerca all’Università di Cambridge nel gruppo di Hewish, analizzando pazientemente i chilometri di striscie di carta su cui venivano registrati i segnali radio, individuò un segnale di aspetto diverso dal solito. Uno studio più accurato evidenziò che il segnale era costituito dal susseguirsi di brevi impulsi distanziati ognuno di 1,3 secondi (fig. 18).
“Impulsi brevissimi che si ripetono ad intervalli regolari di un secondo? C’è qualcuno sulla Terra che li trasmette!” fu l’ovvia interpretazione di Hewish quando fu avvertito della struttura del segnale. Difatti segnali siffatti non potevano venire né da stelle, né tantomeno da galassie, né da altre sorgenti celesti conosciute; tutte troppo estese per originare segnali di così breve durata. Un impulso della durata di due centesimi di secondo deve necessariamente provenire da una sorgente astronomicamente molto piccola, più piccola della distanza che la luce supera in tale tempo.
Figura 18: Tipici impulsi di una pulsar (PSR 0329+54).
Che la sorgente fosse di origine celeste fu comunque subito chiaro poiché la si rilevava nel suo passaggio in cielo a intervalli esatti di un giorno sidereo, cioè l’intervallo dopo il quale una stella passa al meridiano locale. Jocelyn Bell notò pure che quando i segnali ritornavano la notte successiva, erano in fase e con lo stesso periodo di prima, anche dopo parecchi giorni di assenza. Potè essere misurata anche la distanza. La luce e le onde radio si propagano alla velocità di 300.000 km/s nel vuoto, ma quando si propagano in ogni altro mezzo sono un po’ più lente (da ciò deriva il comune fenomeno della rifrazione). Per quanto possa essere rarefatto, il gas ionizzato interstellare rallenta quindi le onde radio e le disperde: le frequenze più basse hanno una minore velocità di propagazione. In base a ciò si poté desumere che la sorgente di tali impulsi – da allora denominata pulsar, dalla contrazione di pulsating star, cioè stella pulsante – distava 300 parsec (980 anni luce).
A questo punto si sapeva dove si trovava la pulsar ma non che cosa fosse. Il meccanismo capace di produrre questi segnali così regolari era naturale o era la prova dell’esistenza di una lontana civiltà di esseri intelligenti che ci mandava un segnale artificiale?
Il solo meccanismo fisico che potesse dar conto di una tale regolarità era la rotazione, ma quale oggetto poteva ruotare così velocemente, con un periodo come quello osservato? La risposta stava nelle intuizioni dei fisici come Lev Landau e astronomi come Baade e Zwicky, i quali avevano ipotizzato l’esistenza delle stelle di neutroni nel 1934. Per ruotare così velocemente, l’oggetto doveva essere molto piccolo, con un diametro dell’ordine di una decina di chilometri: proprio la dimensione attesa per il residuo stellare collassato di una supernova. La pulsar doveva dunque essere una stella degenere di neutroni con una massa superiore a quella del Sole, condensata in una sfera di pochi chilometri e capace di ruotare su se stessa alla velocità di circa un giro al secondo.
La prova decisiva venne con la scoperta di una pulsar all’interno della Nebulosa del Granchio, una pulsar che oltretutto detenne per lungo tempo il record del periodo più breve (0,03106 s): era ormai evidente che esisteva uno stretto rapporto tra pulsar e supernovae. Spostando la ricerca nella parte ottica dello spettro cioè a lunghezze d’onda del visibile, gli astronomi esaminarono un certo numero di stelle nel centro della Nebulosa del Granchio utilizzando un sensore fotoelettrico molto veloce. Si scoprì che una di queste pulsava, cioè restava brillante per una frazione di secondo e poi spariva, con la stessa frequenza del segnale radio: era proprio la stella ipotizzata da Baade 50 anni prima!
Ora che si sapeva cosa e come cercare, le riviste scientifiche si riempirono ben presto di articoli che annunciavano nuove scoperte di queste strane stelle: ai giorni nostri il loro numero è salito a oltre 400. I periodi presentano un'ampia distribuzione: si va da quello della Nebulosa del Granchio fino a circa 4 s. Quasi tutte le pulsar mostrano un tendenziale allungamento del periodo, indicando così che la loro rotazione va rallentando, anche se con una decelerazione estremamente bassa. Le masse, calcolate in base ad osservazioni nei sistemi binari, si collocano intorno a 1,4 masse solari ossia vicino al valore atteso nell’ipotesi che le progenitrici siano delle supernovae.
Oggi si possiede una buona spiegazione generale di tutti i principali fenomeni di una pulsar. Per comprenderli abbiamo bisogno però di conoscere com’è fatto un atomo (si veda la precedente lezione, parag. 2). Un atomo normale è costituito soprattutto da spazio vuoto: solo una parte su 1015 del suo volume è occupata dai protoni o dai neutroni del nucleo. Una stella di neutroni di 1,4 masse solari può avere un diametro di soli 10 o 20 km perché il volume dell’atomo è stato del tutto compresso, con una densità risultante di circa 106 t/cm3, un milione di volte maggiore della densità di una nana bianca. Otterremmo un'analoga densità se riuscissimo a comprimere tutta la massa della Terra dentro uno stadio di calcio. La rapida velocità di rotazione di una pulsar scaturisce semplicemente da un principio fisico di conservazione, quello del momento angolare (lezione 1: parag.1). Man mano che il raggio della stella che collassa dopo l’esplosione della supernova diminuisce, la velocità di rotazione deve necessariamente aumentare. In modo analogo, anche il campo magnetico della stella collassa insieme alla materia, e la compressione delle linee di forza porta la sua intensità a un valori pari a circa 100 miliardi di volte quello del campo magnetico terrestre.
L’asse del campo magnetico di una pulsar, come del resto quello del nostro pianeta, in genere è inclinato rispetto all’asse di rotazione e perciò gli ruota attorno. Si ritiene che il moto del campo magnetico induca un potente campo elettrico capace di accelerare gli elettroni lungo l’asse magnetico fino a una velocità prossima a quella della luce. Il risultato di tutto cioè un fascio intenso e fortemente collimato (cioè con una direzione ben precisa) di radiazione elettromagnetica che ruota con la stella, comportandosi come il fascio di un faro (fig. 19). Nel caso in cui la Terra si viene a trovare nella direzione del fascio, si potrà rilevare una radiazione pulsata; in caso contrario, non si percepisce affatto l’esistenza della stella. Se il disallineamento tra gli assi magnetico e di rotazione è sufficientemente elevato, può capitare che ci pervengano due impulsi per ogni periodo, l’uno da un polo e l’altro dal polo opposto: in effetti riceviamo un interimpulso di questo tipo anche dalla pulsar della Nebulosa del Granchio.
Figura 19: Meccanismo di emissione di una pulsar.
La radiazione ricava la sua energia dalla rotazione della stella. Ecco perché la pulsar deve rallentare con l’andare del tempo; le più giovani, come quella della Nebulosa del Granchio, ruotano più velocemente e hanno maggiore energia, il che spiega come mai vediamo la pulsar della Nebulosa del Granchio non solo nelle lunghezze d’onda ottiche ma anche nei raggi X. In effetti, si pensa che la pulsar sia la sorgente sia del campo magnetico che degli elettroni ad alta velocità che conferiscono alla Nebulosa del Granchio la sua potenza straordinaria.
Soltanto le pulsar più giovani risultano associate coi resti di supernova, poiché il gas in espansione si dissipa molto prima che la stella ruotante abbia esaurito tutta la sua energia. Pochissimi dei resti di supernova risultano associati con pulsar visibili, sia perché la stella può essere andata completamente distrutta (è ciò che avviene nelle esplosioni di tipo I), sia perché l’asse di rotazione può essere orientato in modo che l’asse magnetico non punti mai verso la Terra. Considerando tutte queste possibilità, ci si accorge che il numero delle pulsar osservate va sostanzialmente d’accordo con il tasso di produzione delle supernovae galattiche. Fatto questo che si aggiunge a quelli descritti precedentemente e conferma la correttezza dell’interpretazione data.
Il collasso gravitazionale è un destino a cui le stelle tendono senza opporvisi attivamente. Le stelle possono perdere buona parte della loro massa nel corso dell’evoluzione, e abbiamo visto che quelle di massa più piccola (5–8 masse solari) possono concludere la loro esistenza come nane bianche. Ma la scoperta delle stelle di neutroni nei resti di supernova dimostra che le stelle ancora più massicce non ce la fanno a liberarsi del loro gas in una misura che le metta al sicuro, al di sotto del limite di Chandrasekhar. Il limite superiore per la massa di una stella di neutroni è compreso tra 2 e 3 masse solari, non molto più grande del limite di una nana bianca, e non c’è alcun motivo teorico che impedisca l’evoluzione stellare di portare a resti più massicci di così.
Al di sopra di 2 o 3 masse solari è perciò destino che una stella vada soggetta a un collasso gravitazionale completo che la trasforma in un buco nero: non c’è pressione interna di alcun tipo che possa mantenerla in equilibrio una volta esaurite le sue sorgenti di energia nucleare.
Ma che cos’è un buco nero? È esperienza quotidiana che quando si lancia una palla verso esalto, la si vede perdere energia cinetica sotto l’azione della gravità, rallentare e ben presto ricadere a terra. Se però si riuscisse a lanciarla a 11,2 km/s, che è la velocità di fuga dalla superficie terrestre, l’intensità del campo gravitazionale sarebbe insufficiente a fermarla. Pur continuando perpetuamente a rallentare, la palla proseguirebbe lungo la sua traiettoria di allontanamento nello spazio e non tornerebbe mai più indietro.
Nel 1916 Albert Einstein dimostrò, nel quadro della sua teoria generale della relatività che pure un fascio di luce risente della gravità (lezione 1, parag. 1.1). D’altra parte uno dei concetti fondamentali della stessa teoria è che la velocità della luce nel vuoto è costante, indipendentemente dalla velocità della sorgente che la emette o di chi la osserva. Un fascio luminoso quindi, risente della gravità in modo simile alla palla ma non può rallentare: può invece perdere energia. Difatti poiché questa è proporzionale alla frequenza (E = hv) la perdita di energia avviene attraverso una diminuzione della frequenza: la lunghezza d’onda si allunga e la luce si arrossa.
Adesso immaginiamo di essere nello spazio e di guardare verso la Terra, dalla quale un amico ci invia un fascio di luce verde. Siccome il campo gravitazionale terrestre è debole, la luce perde solo un po’ di energia e si arrossa in modo impercettibile. Ma supponiamo che nello stesso tempo il nostro amico cominci a comprimere la Terra. Il campo gravitazionale in superficie cresce di conseguenza, e così la velocità di fuga: altrettanto deve aumentare il grado di arrossamento del fascio luminoso. Nel momento in cui la Terra arriva a essere compressa in una sferetta con un diametro di poco inferiore a 2 cm, la velocità di fuga raggiunge il valore della velocità della luce: la luce a quel punto perde tutta la sua energia, la lunghezza d’onda diventa infinita e sia il fascio luminoso che la Terra spariscono alla nostra vista. Il nostro pianeta si è trasformato in un buco nero, un punto singolare dello spazio–tempo dal quale nulla può più sfuggire. Qualunque oggetto si trovi in queste condizioni continua a collassare all’infinito, e nel suo centro la massa finisce per raggiungere una densità infinita. Le leggi della fisica perdono ogni significato all’interno del buco nero, poiché nessuna informazione può uscirne. Mentre collassa, tuttavia, il buco nero si lascia alle spalle una superficie apparente che è detta orizzonte degli eventi, il cui raggio dipende solo dalla massa del buco nero e pertanto, se questa non cambia, resta costante nel tempo. La dimensione dell’orizzonte degli eventi viene assunta come dimensione del buco nero. Per una stella appena sopra alla soglia delle 3 masse solari, l’orizzonte degli eventi misura qualche chilometro, poco meno del raggio della stella di neutroni stessa.
Ma esistono davvero i buchi neri? E se esistono, dove sono? E se nessuna radiazione può uscirne, come possiamo sperare di scoprirli? La risposta sta nello stesso tipo di fenomeno che produce le novae e probabilmente le supernovae di Tipo I: le interazioni gravitazionali.
Nella costellazione del Cigno c’è una nana del tipo O per il resto apparentemente normale, che emana un potente flusso di raggi X. La stella, nota come Cygnus X-1, mostra righe di assorbimento che si spostano avanti e indietro per effetto Doppler, rivelando la sua appartenenza a un sistema binario, anche se non si vede traccia della compagna. In questa situazione, stimando la massa della stella di classe O in Cyg X-1, si può fissare un limite inferiore alla massa della compagna invisibile. Nel caso specifico, questa risulta superiore a 3 masse solari, e potrebbe addirittura raggiungere il valore di 16 masse solari. Una stella normale con questa massa sarebbe senz'altro visibile, e inoltre questo oggetto è troppo massiccio per essere una nana bianca o una stella di neutroni: da qui la conclusione che deve trattarsi di un buco nero. I raggi X sono prodotti dalla materia dell’atmosfera della nana O che, risucchiata dalle forze mareali, finisce su un disco di accrescimento ad altissima temperatura prima di sparire per sempre cadendo nel pozzo gravitazionale del buco nero. Senza i raggi X non ci saremmo mai accorti dell’esistenza di questo sistema.
Esistono almeno altri due candidati al ruolo di buco nero: LMC X-3 nella Grande Nube di Magellano e A0620-00 nella costellazione dell’Unicorno: per entrambi si pensa che la massa dell’oggetto collassato sia prossima alle 10 masse solari. Secondo l’opinione di alcuni astronomi l’esistenza dei buchi neri in sistemi binari stellari è stata confermata con la probabilità del 99%: per questi non ci sono spiegazioni alternative plausibili delle osservazioni.
Concludiamo con alcune considerazioni sui buchi neri. Dato il grande impatto psicologico che l’idea dei buchi neri ha avuto sull'opinione pubblica, impatto ampliato a dismisura dai mezzi di comunicazione, si sono venuti a creare su tali oggetti diversi miti popolari sui quali conviene dare qualche chiarimento.
Il primo è che i buchi neri siano oggetti in grado di assorbire qualsiasi cosa e cioè siano dei grandi ripulitori del vuoto cosmico. Ebbene: questo è falso! L’influenza di un buco nero è limitata; solo gli oggetti nelle immediate vicinanze sono fortemente attratti verso il buco nero ed esiste sempre la possibilità di raggiungere un'orbita stabile (o quasi stabile) ad una distanza opportuna e sufficientemente sicura, attorno al buco nero. Per esempio, se il Sole si trasformasse in un buco nero, l’orbita della Terra non ne sarebbe alterata; le masse del Sole e della Terra rimarrebbero costanti così come la distanza tra essi e la forza di gravitazione. Infatti, il campo gravitazionale rimarrebbe il medesimo in ogni punto al di là dell’attuale raggio solare.
Una seconda credenza da rivedere e che è spesso presente nei racconti di fantascienza, è quella che fa nascere buchi neri dappertutto: questi si formerebbero quindi, senza apparenti ragioni, in qualsiasi regione del cosmo. Ora anche questo è falso. I buchi neri, secondo le attuali leggi fisiche possono essere prodotti in poche e specifiche situazioni: 1) da stelle molto massicce, 2) da stelle di neutroni legate gravitazionalmente ad altre stelle compagne e dalle quali stanno sottraendo materia attraverso dischi di accrescimento, 3) nel centro delle galassie (come si vedrà più avanti), 4) a causa delle disomogeneità della densità della materia appena dopo il Big Bang. In un tale quadro quindi, il nostro Sole non potrà mai diventare un buco nero.
Figura 20: Diagramma illustrativo dello spazio in prossimità di un buco nero.
Una terza credenza ha origine nelle rappresentazioni grafiche che dei buchi neri sono state proposte nell’ambito della letteratura scientifica (fig. 20). Tale credenza considera possibile realizzare viaggi in altri universi o, in altre parti del nostro Universo, attraverso queste strutture divulgate come tunnel spazio–temporali (tecnicamente invece, sono detti ponti di Einstein–Rosen). Innanzitutto, questi diagrammi schematizzano solo una situazione ideale e non descrivono adeguatamente la struttura spazio–temporale entro un buco nero. Analisi più dettagliate mostrano difatti che per poter realizzare un tale “passaggio” tra universi, un oggetto dovrebbe andare ad una velocità superiore a quella della luce, il che è impossibile. In aggiunta dovrebbe esistere della materia con proprietà particolarmente strane, quali per esempio un'energia negativa. Ne segue che la possibilità di viaggi tra universi o tra diverse parti del nostro Universo dev’essere considerata solo come una (brillante) invenzione degli scrittori di fantascienza.