Le galassie sono i “mattoni” dell’universo. Nella maggior parte dei casi la luce che ne proviene è la somma dell’emissione delle decine o centinaia di miliardi di stelle da cui esse sono formate. Sappiamo pure che per le loro dimensioni e lontananza questi “universi–isola” sono stati riconosciuti come tali solo in questo secolo, da Edwin Hubble, attorno agli anni venti.
Il tipo di galassia più familiare è quello dei sistemi a disco, o galassie spirali. Sulle lastre fotografiche queste galassie sembrano composte essenzialmente da stelle e da gas concentrati in un disco circolare. Una tipica galassia spirale contiene qualcosa come 1011 stelle e un 10% di materia sotto forma di gas, il tutto distribuito in una regione con un diametro di circa 100 mila anni luce. Stelle e gas percorrono orbite grosso modo circolari attorno al centro del disco con periodi tali che una stella impiega 200 milioni di anni per completare una singola rotazione, pur muovendosi a 200 km/s; ogni stella ha perciò percorso al più una cinquantina di orbite da quando si formò la sua galassia. Il più prossimo di questi sistemi, molto simile alla nostra Via Lattea, dista circa 2 milioni di anni luce da noi ed è la galassia di Andromeda.
Lo schema generalmente accettato di classificazione delle galassie vede, accanto alle galassie a spirale, quelle ellittiche, la seconda classe per importanza. Questi sono sistemi dalla forma variamente ellittica costituiti da 108 ÷ 1012 stelle, ciascuna delle quali percorre orbite complicate sotto l’influsso del campo gravitazionale complessivo. L’aspetto indifferenziato e uniforme di una galassia ellittica ci dice che le orbite stellari sono distribuite in modo sostanzialmente casuale. In un tale sistema si è venuto a stabilire un equilibrio dove si bilanciano, da un lato, la tendenza della gravitazione a far collassare le stelle verso il centro e, dall’altro, i moti casuali che invece tenderebbero a disgregare la galassia. Generalmente sulle fotografie le singole stelle appaiono così vicine che non si riesce a risolverle individualmente; eppure, dentro l’enorme volume di una galassia queste stelle sono così disperse che non c’è una probabilità significativa che possano essere avvenute collisioni o incontri ravvicinati nel corso dei 10 e più miliardi di anni di vita del sistema; lo stesso vale per le galassie a disco.
Solo nelle regioni più dense del nucleo galattico tale probabilità non è trascurabile. Le osservazioni delle regioni centrali della Via Lattea e di altre galassie hanno già da tempo evidenziato come l’emissione da queste regioni non possa provenire solo da stelle normali. Per questo fatto il nucleo di una galassia dev’essere pertanto un oggetto interessante e misterioso. È appunto sulle particolarità di queste regioni che ci vogliamo soffermare.
Guardando la fotografia di una galassia e facile constatare che la concentrazione delle stelle aumenta andando verso il centro, il cosiddetto nucleo. Alle lunghezze d’onda ottiche, il nucleo della Via Lattea risulta oscurato da uno spesso velo di polveri e di gas, ma le osservazioni nell’infrarosso hanno rivelato l’esistenza di milioni di stelle concentrate entro un anno luce dal centro. Se confrontiamo questa densità stellare con quella dell’ambiente che ci circonda, che è di circa 0,006 Mo per anno luce cubico, dobbiamo concludere che mediamente nella regione del centro galattico le stelle sono 300 volte più concentrate.
I nuclei delle galassie sono pertanto luoghi “pericolosi”, dove le stelle non solo sono incredibilmente addensate ma si muovono pure casualmente in tutte le direzioni a velocità che giungono a diverse centinaia di chilometri al secondo, e tutto ciò a causa della mutua attrazione gravitazionale. Per trovare densità stellari altrettanto elevate bisogna andare nei centri degli ammassi globulari ma lì le velocità sono fra 10 e 100 volte più basse. Collisioni violente fra le stelle dovrebbero essere inevitabili nei nuclei galattici, e in effetti la stima è che nel nucleo della Via Lattea se ne verifichi una ogni 10 mila anni.
Non è facile prevedere quale possa essere il destino di una così densa concentrazione di stelle: se ne discute dagli anni sessanta, e la soluzione dell’enigma, conviene ribadirlo esplicitamente, è ancora lontana. Tanto per cominciare, non è ben chiaro teoricamente quale possa essere l’esito anche di un solo incontro stellare.
Quando si considera la struttura di una galassia come un tutto unico, è corretto considerare le singole stelle come punti dotati di massa di dimensioni trascurabili. Questa approssimazione però non regge più quando si considerano incontri ravvicinati nei quali due stelle si sfiorano passando a una distanza di pochi raggi stellari: in una situazione del genere le forze mareali deformano la struttura interna delle stelle, riscaldandole e frenando il loro moto. Se questo effetto di attrito rallenta in misura apprezzabile i moti relativi, le due stelle possono cominciare a orbitare l’una attorno all’altra, e così due astri che si muovevano indipendentemente l’uno dall’altro si ritrovano a essere legati in un sistema binario per cattura mareale. Se poi le maree sono sufficientemente intense, le stelle possono avvicinarsi con moto a spirale fino a fondersi in un solo astro più massiccio. Il destino di un simile astro dipende dall’ambiente in cui il fenomeno si produce e soprattutto dallo stadio evolutivo delle due stelle che l’hanno generato.
Ora si ritiene che la fusione rappresenti il più probabile dei risultati di un incontro stellare in cui le velocità relative sono piccole rispetto alla velocità di fuga dalla superficie di ciascuna stella. La velocità di fuga dal Sole, per esempio, e di 618 km/s.
Quando le velocità relative sono molto più elevate, le stelle si schiantano letteralmente l’una contro l’altra con un rilascio di getti di gas di altissima velocità. Mentre gli incontri lenti danno origine a stelle di grande massa (maggiore delle 100 Mo), le collisioni veloci demoliscono le stelle esistenti. Le collisioni sono per lo più distruttive quando hanno luogo in ammassi di stelle veloci, con velocità tipiche superiori a 1000 km/s. Ma nell’ammasso stellare al centro della Via Lattea le velocità sono solo di circa 200 km/s e gli incontri dovrebbero quindi situarsi nel regime delle fusioni piuttosto che nelle collisioni veloci. In effetti, il centro della nostra galassia mostra un'abbondanza straordinariamente elevata di stelle blu massicce, con ogni probabilità scaturite da fusioni avvenute nell’ultimo milione di anni.
Gli incontri stellari hanno certamente un impatto sull'evoluzione di un nucleo galattico, ma l’esatta natura di questo impatto ci è per ora sconosciuta. Possiamo solo tracciare qualche scenario. Nella fase dominata dalle fusioni per esempio, diventano importanti anche altri effetti: ne proponiamo sinteticamente qualcuno.
L’incremento di massa di una stella ne accorcia la vita evolutiva in quanto le reazioni nucleari di fusione avvengono con maggior efficienza e ciò condanna la stella a una morte violenta. Pertanto il tasso di esplosione di supernovae deve dunque aumentare proporzionalmente al numero di stelle massicce. D’altra parte tali esplosioni, contribuendo a espellere materia dal nucleo, contrastano il processo di contrazione dell’ammasso, perché la perdita di massa indebolisce la forza di gravità. Le supernovae inoltre lasciano come residuo un insieme di stelle di neutroni e di buchi neri di massa stellare meno soggetti al fenomeno delle collisioni dirette per via delle loro dimensioni più compatte anche se tutti questi oggetti sono ancora legati gravitazionalmente. Sta di fatto che il destino dell’ammasso presente nel nucleo dipende da come procede la competizione tra questi fattori, le collisioni, gli incontri gravitazionali e la perdita esplosiva di massa a causa delle supernovae massicce (fig. 21). Una soluzione estrema è che il processo di fusione porti alla formazione di poche stelle di enormi dimensioni che scivolano verso il centro dell’ammasso, si fondono tra loro e infine collassano in un buco nero. Nell’altro scenario estremo, una piccola frazione dell’ammasso iniziale si contrae fino a formare un nocciolo di stelle fortemente legate tra loro, nel quale quasi tutte le collisioni sono ora violentemente distruttive. In questa seconda eventualità l’evoluzione diventa ancora più incerta. Comunque le stelle con le loro collisioni darebbero origine ad una nube gassosa che non può che raccogliersi al centro galattico in quanto non sarebbe in grado di sfuggire alla forte attrazione gravitazionale dell’ammasso. Una volta che questa nube inizia a contrarsi per effetto della propria gravità, è quasi inevitabile che essa finisca per collassare in un buco nero.
Figura 21: Possibili scenari evolutivi per un nucleo galattico.
Ma la faccenda è ancor più complicata, perché il nucleo galattico non è un sistema chiuso. Le esplosioni di supernovae o i potenti venti stellari potrebbero espellere gran parte dei resti gassosi dalle regioni centrali, impedendone l’accumulo. Cioè particolarmente probabile in un nucleo galattico di massa modesta e di basse velocità casuali, come è il centro della Via Lattea, il cui contenuto di materia è al più di alcuni milioni di masse solari. Ma in un nucleo galattico più denso o più massiccio, contenente fino a un miliardo di masse solari, non c’è nulla che possa opporsi all’accumulazione della materia. In tal caso, il gas inizialmente lontano dal nucleo emesso dall’evoluzione stellare della galassia, sottratto allo spazio intergalattico, oppure residuato dalla formazione della galassia viene attratto verso il centro man mano che perde il proprio momento angolare. Lì giunto, non ha alternative: deve necessariamente accumularsi. Quale sarà la sua fine? Darà vita a nuove stelle, contribuendo all’alta densità dell’ammasso stellare centrale? Oppure formerà una nube amorfa destinata a frenare le orbite delle stelle di passaggio e a favorirne la fusione? Oppure ancora si contrarrà, per effetto della propria gravità, fino a dare origine a una singola “superstella”, che ci dice la teoria sarebbe così instabile da collassare immediatamente in un buco nero? Le risposte a simili domande restano altamente congetturali, ma non sarebbe poi così strano se nei nuclei di molte galassie si trovassero buchi neri molto massicci, di milioni o anche di miliardi di masse solari.
Di fronte a fenomeni così complessi, la strada maestra per scegliere la più credibile fra le molte e diverse ipotesi alternative è quella dell’osservazione. Che cosa effettivamente osserviamo nel solo nucleo galattico che siamo in grado di studiare in qualche dettaglio, cioè quello della nostra Via Lattea, distante appena 25.000 anni luce da noi? Benché nel dominio ottico e in quello ultravioletto la radiazione proveniente dal centro galattico sia quasi totalmente oscurata dal gas e dalle polveri, è possibile tracciare una mappa della regione alle lunghezze d’onda radio, infrarosse, dei raggi X e dei raggi gamma. Quel che vediamo è solo una gran confusione: un ammasso stellare denso, immerso in un ambiente estremamente complesso, fatto di filamenti gassosi, di dischi, di bolle di gas. Ci sono lunghi filamenti lineari, riconoscibili nell’emissione radio per l’effetto di sincrotrone generato da elettroni energetici in moto nel campo magnetico, che in qualche modo ricordano le protuberanze che si sollevano dalla superficie del Sole.
Al centro di tutto vi è una radiosorgente puntiforme indicata col nome di Sagittarius A* (Sgr A*). Da anni si discute se questo oggetto possa essere un buco nero di milioni di masse solari. Chi ritiene di si, ne sottolinea la forma compatta (è così piccolo che potrebbe essere contenuto all’interno dell’orbita di Giove) e l’inconsueto spettro di radiazione, che assomiglia a quello prodotto da un gas che stia cadendo con lento moto a spirale in un buco nero. Un altro punto a favore dell’ipotesi del buco nero massiccio è il lento spostamento di Sgr A* sulla volta celeste. Se la sua massa fosse solo poche volte maggiore di quella di una stella normale, molto probabilmente l’oggetto si muoverebbe con una velocità analoga a quella delle altre stelle, mentre in realtà è così lento che lo si può quasi considerare stazionario. Chi non è d’accordo obietta che nella parte centrale dell’ammasso potrebbe esserci un numero così elevato di stelle ordinarie da render conto di tutta la massa presente, e che quindi non è necessario scomodare un buco nero per spiegare il moto delle stelle. Una seconda obiezione è che il rilascio energetico di Sgr A* è così basso da rendere poco plausibile che si tratti di un buco nero supermassiccio immerso in un ambiente così denso di stelle e di gas.
Forse il dibattito sull'ipotesi del buco nero nel centro galattico potrebbe avviarsi a conclusione entro breve tempo. Fino a pochi anni fa, un pessimista avrebbe letto in questa controversia una chiara riprova del fatto che probabilmente i buchi neri, anche ammesso che esistano, sono assai poco propensi a segnalare in modo evidente la loro presenza. Ma oggi l’atteggiamento prevalente tra i “cacciatori di buchi neri” è decisamente più ottimistico. Come spiegheremo nelle prossime sezioni, pare che molti buchi neri manifestino la loro presenza nei nuclei galattici con straordinari spettacoli pirotecnici: grazie a questi vistosi fenomeni, possiamo dirci ragionevolmente sicuri di aver scoperto buchi neri davvero supermassicci nei nuclei di altre galassie. Alcuni di questi si avvicinano a masse dell’ordine di 109 Mo, facendo apparire nulla più che un nano l’ipotetico buco nero presente al centro della Via Lattea. Essi producono i fenomeni più luminosi che si conoscano nell’universo – i quasar – e possono essere scoperti anche grazie all’influsso gravitazionale che esercitano sul moto delle stelle e del gas nelle regioni centrali delle loro galassie.
Non molto tempo dopo che le “nebulose a spirale” e le consorelle ellittiche furono riconosciute come “universi–isola” di stelle e di gas ben distinte dalla Via Lattea, gli astronomi cominciarono ad accorgersi che nei centri di molte galassie si verificava qualcosa di strano. Spesso, per esempio, vi si notava un'intensa concentrazione di luce blu, con caratteristiche spettrali decisamente diverse da quelle delle normali aggregazioni di stelle e di gas che popolano le galassie: la componente blu e ultravioletta della radiazione era troppo abbondante perché potesse scaturire da stelle ordinarie, benché molto calde. Talvolta queste sorgenti centrali di energia rivaleggiavano in luminosità con l’intera galassia circostante, e in seguito si scoprì anche che il loro flusso era variabile. Le galassie dotate di tali sorgenti centrali vennero denominate galassie attive, e le sorgenti stesse furono dette nuclei galattici attivi, o AGN (dall’inglese Active Galactic Nuclei). Gli esempi più estremi di questi oggetti sono i quasar.
Alla scoperta e all’interpretazione delle galassie attive e dei quasar si arrivò dopo un cammino alquanto tortuoso. Furono le scoperte accidentali degli astronomi radio e ottici a far capire che ci si era imbattuti in uno dei fenomeni più energetici dell'Universo, e quasi certamente nella prova più limpida che nei nuclei delle galassie risiedono buchi neri massicci.
Indizi di qualche forma di attività violenta nei centri delle galassie erano di tanto in tanto emersi nel corso dei cinquant'anni che precedettero la scoperta dei quasar, avvenuta infine nel 1963. Già nel 1917 si era scoperto che la galassia M87 esibiva una struttura a forma di getto emanante dal suo nucleo. Altre galassie vicine come M82, sembravano attraversare una fase di violenta disgregazione, ma più tardi ci si rese conto che M82 appartiene a una sottoclasse di galassie la cui attività è provocata non da un buco nero centrale, ma piuttosto da un intenso processo di formazione stellare in atto. Di prove certe che qualcosa di inusuale avviene in alcune galassie non se ne ebbero fino alla seconda guerra mondiale. In quegli anni Karl Seyfert, che lavorava all'Osservatorio di Monte Wilson (California), si rese conto che una ristretta famiglia di galassie spirali non più di qualche punto percentuale sul totale mostrava dei nuclei puntiformi di colore blu intenso. Gli spettri di quelle che noi ora chiamiamo galassie di Seyfert esibiscono forti righe d'emissione analoghe a quelle prodotte da nubi di gas ionizzato. Solo che, invece di essere righe molto sottili, come quelle che si osservano nei laboratori terrestri, queste si allargano su un intervallo di lunghezze d'onda sorprendentemente esteso. Tale allargamento, attribuito all'effetto Doppler, sarebbe indicativo di una estrema turbolenza del gas emittente, con velocità casuali che arrivano a qualche centesimo della velocità della luce: si tratta di moti tra 10 e 100 volte più veloci di quelli del gas ordinario che si osserva nelle galassie.
Ma fu soltanto con l'avvento della radioastronomia che si dovette prendere atto che alcune galassie potevano essere qualcosa di più di un mero aggregato di gas e di stelle ordinarie. Nel 1954 fu scoperta la radiosorgente Cygnus A, l'oggetto più brillante del cielo nelle onde radio e si riuscì a identificare l'origine dell'emissione in due gigantesche regioni, simmetricamente disposte rispetto alla galassia centrale, costituite da lobi di plasma cioè di gas ionizzato. La stima dell'energia posseduta dai due lobi sotto forma di elettroni in moto a velocità prossime a quella della luce doveva essere superiore alla quantità rilasciata dalla annichilazione completa (attraverso la formula E = mc2) di materia per un totale di 106 Mo. Questo risultato fu la prima chiara prova che i nuclei galattici possono rilasciare energia su una scala che supera ampiamente quella delle esplosioni di supernova e che, in virtù di qualche strano meccanismo, questa energia e obbligata ad assumere la forma di particelle relativistiche e di campi magnetici. Ma da dove proviene tale energia?
Il principale contributo dell'astronomia ottica alla soluzione dell'enigma venne nel 1963 con la scoperta da parte di Maarten Schmidt di 3C 273, il primo quasar 3. Questo oggetto, oltre ad avere un redshift pari al 15% della velocità della luce e quindi, per la legge di Hubble, doveva trovarsi ad una distanza cosmologica di circa 2 miliardi di anni luce, doveva essere pure particolarmente compatto in quanto ricerche sul materiale fotografico dei decenni precedenti avevano rivelato una variabilità della sua luminosità di appena un mese.
Era dunque stata scoperta una nuova classe di oggetti celesti dall'aspetto simile a quello delle stelle ordinarie sulle lastre fotografiche, ma con righe d'emissione con alti redshift: questi oggetti, chiamati quasar o anche QSO (acronimo di Quasi Stellar Object), sviluppavano una potenza almeno cento volte superiore a quella di un'intera galassia! La ragione per cui i quasar non erano stati riconosciuti in precedenza è che a prima vista sembrano normali stelle. I quasar rivelarono la loro straordinaria emissione di energia solo dopo essere stati attentamente studiati con gli spettrografi, in seguito alla loro casuale scoperta nelle radioonde.
Secondo molti astrofisici i quasar non sono che una versione luminosissima degli stessi nuclei blu che Seyfert aveva osservato nei centri di talune galassie spirali vicine. Il motivo per cui ci appaiono come stelle isolate è che la loro luminosità è talmente soverchiante rispetto a quella della galassia circostante da renderla invisibile. Non sorprende che la maggior parte dei primi quasar scoperti mostrasse una forte radioemissione, dal momento che gli astronomi ottici usavano proprio tale emissione per selezionare gli oggetti da studiare. Tuttavia, oggi sappiamo che i quasar con una forte radioemissione sono l'eccezione piuttosto che la regola: in nove casi su dieci le sorgenti puntiformi ad alta luminosità e con righe d'emissione larghe (cioè dal profilo allargato per effetto Doppler) non hanno forti emissioni nelle radioonde.
Mentre i quasar e le galassie di Seyfert sono particolarmente luminosi alle lunghezze d'onda ottiche, ultraviolette e nei raggi X, altre galassie dispiegano un'attività anomala di tipo molto differente. Le radio-galassie, i cui prototipi sono Cygnus A e M87 in qualche modo incanalano il grosso della loro emissione energetica nella banda radio, producendo larghe “macchie” di radioemissione diffusa sulla volta celeste. Sta di fatto che tutte le varietà di quasar, di galassie di Seyfert e di radiogalassie sono considerate appartenenti alla classe osservativamente eterogenea degli oggetti chiamati Nuclei Galattici Attivi o come detto AGN; ma che cosa hanno davvero in comune queste sorgenti celesti? Nel caso delle più comuni galassie spirali ed ellittiche queste, benché abbiano morfologie, popolazioni stellari e dinamiche interne molto differenti, presentano fondamentali analogie strutturali, in quanto sistemi di stelle e di gas tenuti assieme dalla forza di gravità. Perciò il loro raggruppamento nella categoria delle galassie si è rivelato una feconda generalizzazione che ha aiutato gli astrofisici a scoprire i principi unificanti dei vari tipi di strutture che popolano l'universo. Ci si chiede allora se la definizione di Nuclei Galattici Attivi rifletta un'analoga unità tra queste sorgenti apparentemente così diverse. Un legame ovvio e importante è che
tutte queste forme di attività hanno origine nei nuclei delle rispettive galassie.
Ma si può andare oltre. Alcuni aspetti simili nelle diverse forme di attività inducono a ritenere che tutte rappresentino differenti manifestazioni dello stesso tipo di fenomeno. Tali proprietà generali sono raggruppabili nelle quattro seguenti generalizzazioni.
Figura 22: Caratteristiche dei Nuclei Galattici Attivi.
1. Gli AGN possono emettere energia a potenze elevatissime. L'emissione dei più luminosi tra i quasar e delle più potenti radiogalassie può superare di un fattore 100 la luminosità totale di tutte le stelle di una grande galassia. Gli episodi di attività possono durare molti milioni di anni. Tra i fenomeni di lunga durata dell'universo, gli AGN sono i più potenti che si conoscano.
2. Gli AGN sono estremamente compatti. Abbiamo già detto che la luminosità del quasar 3C 273 varia irregolarmente su periodi di alcune settimane, ma la rapida variabilità in qualche caso su tempi scala di appena poche ore è un aspetto ricorrente negli AGN. Questa variabilità pone un limite superiore alle dimensioni di un AGN. Se la luminosità di un corpo astronomico varia regolarmente in un certo intervallo di tempo, se ne può concludere che esso deve essere più piccolo della distanza che la luce può percorrere in quello stesso intervallo: infatti nessun segnale può propagarsi più velocemente della luce per “informare” le diverse regioni dell'oggetto di variare in fase. La velocità di variazione osservata quindi indica che le dimensioni degli AGN non possono superare di molto quelle del sistema solare: si tratta di dimensioni davvero minuscole per gli standard galattici.
3. La radiazione degli AGN probabilmente non è prodotta da stelle o gas. Pur emettendo più energia in questa o in quella parte dello spettro, gli AGN producono sempre una cospicua quantità di radiazione su un ampio intervallo di lunghezze d'onda (fig. 23). Ce ne sono alcuni che emettono quantità paragonabili di energia nelle regioni radio, dell'infrarosso, dell'ottico, dell'ultravioletto, dei raggi X e dei raggi gamma: un intervallo di lunghezze d'onda di oltre 1010! Al contrario, le stelle e il gas tendono a concentrare la loro emissione su una banda di lunghezze d'onda relativamente ristretta; questa banda caratteristica risulta correlata con la temperatura della materia emittente, secondo la cosiddetta legge di corpo nero che descrive la radiazione prodotta dai solidi, dai liquidi e dai gas di alta densità (si veda 2.3). Risulta così che un corpo molto caldo irraggia soprattutto nella banda delle lunghezze d'onda brevissime, cioè nella regione spettrale dei raggi X e gamma. La radiazione, che è caratterizzata da un picco ben definito nello spettro, è detta termica, perché assomiglia a quella prodotta da un corpo solido a una data temperatura; ne sono esempi il filamento di una lampadina a incandescenza o la serpentina di una stufetta elettrica. Gli AGN hanno spettri “non-termici”, perché l'energia emessa è così uniformemente distribuita nelle lunghezze d'onda che è impossibile associarle una particolare temperatura.
4. Gli AGN contengono gas che si muove ad altissima velocità, spesso prossima a quella della luce. Le velocità delle nubi di gas nei quasar e negli altri tipi di AGN possono essere dedotte misurando lo spostamento Doppler delle righe d'emissione. Le velocità così ottenute raggiungono normalmente il 10% della velocità della luce. Come vedremo in seguito, di solito le velocità dei getti prodotti dalle radiogalassie sono misurate con metodi più indiretti; tuttavia, gli elementi di prova fin qui raccolti inducono a ritenere che essi contengano gas che si allontana dal nucleo quasi alla velocità della luce.
Figura 23: Spettro dei quasar.
Che cosa possiamo dedurre dalle caratteristiche mostrate dagli AGN? Come vedremo, tutti questi fenomeni possono esser spiegati molto semplicemente (si fa per dire... ) come la manifestazione dell'esistenza di buchi neri massicci nel centro delle galassie. L'aspetto cruciale di tale deduzione è contenuto nelle prime due caratteristiche, così straordinarie che vale la pena di riaffermarle: gli AGN sono oggetti capaci di produrre l'energia sviluppata da un'intera galassia dentro una regione che ha le dimensioni del sistema solare. In particolare i quasar possono essere spiegati da un modello che vede come protagonista un buco nero di almeno 108 Mo. Come le stelle binarie X sono alimentate dal trasferimento di materia dalla stella compagna verso quella compatta, così i buchi neri massicci negli AGN verrebbero energizzati dalla cattura del gas della galassia circostante, o addirittura dall'inghiottimento di intere stelle. La materia catturata turbinerebbe nell'intenso campo gravitazionale raggiungendo quasi la velocità della luce prima di finire distrutta e ingoiata. L'energia gravitazionale così liberata metterebbe a disposizione la potenza necessaria per giustificare la luminosità e i getti gassosi che caratterizzano gli AGN.
Fasci sottili di particelle velocissime emergono dal profondo del nucleo delle radiogalassie e spesso si proiettano nello spazio per milioni di anni luce. Si sospetta che al centro di quelle galassie possa annidarsi un buco nero, ma a onor del vero questi getti di gas sembrerebbero proprio l'ultima cosa che ci si possa attendere da un buco nero: i buchi neri non sono, almeno nell'immaginario collettivo, gli “spazzini” del Cosmo, avidi risucchiatori di tutto ciò che li circonda? Sembra ovvio che il gas catturato da simili “mostri” possa diventare caldo e luminoso poco prima di sparire nelle loro fauci, giustificando in tal modo la luminosità di un buco nero in accrescimento. Ma l'idea che gran parte del gas in caduta possa poi rimbalzare all'indietro ed essere scagliata via a una velocità pari al 99% di quella della luce sfida ogni fantasia; o piuttosto sarebbe apparsa assai poco verosimile se fosse stata avanzata prima dell'avvento della radioastronomia. Ma, come è già capitato in passato, una nuova tecnica osservativa spesso ribalta la nostra visione dell'universo.
Dopo essere stati scoperti nelle radiogalassie, i getti si sono dimostrati un fenomeno relativamente comune nell'universo. Spesso si producono quando un gas conserva una certa quantità di momento angolare e turbina all'interno di un forte campo gravitazionale come, per esempio, in un disco di accrescimento. Possiamo immaginarli come delle specie di trottole celesti che si instaurano in un ampia gamma di ambienti astrofisici: radiogalassie, binarie X e anche stelle ordinarie poco dopo la loro formazione. Dunque, non sono una manifestazione tipica dei soli buchi neri. Tuttavia i getti che si formano nei pressi di un buco nero recano il marchio delle condizioni estreme dell'ambiente in cui nascono: da nessun'altra parte nell'universo vediamo la materia sospinta a velocità così spaventose, quasi sempre prossime a quella della luce.
Per essere precisi, bisognerebbe dire che i radioastronomi riscoprirono i getti prodotti nei nuclei galattici attivi. Già nel 1917 infatti, Heber Curtis aveva notato un getto di luce emergente dal nucleo della galassia ellittica gigante M87, situata nel centro di un ammasso di galassie nella costellazione della Vergine. Quella osservazione rimase però senza seguito anche perché a quell'epoca non si era ancora capito che M87 era una galassia lontana.
La radioastronomia affonda le sue radici nell'industria delle telecomunicazioni. Nel 1931 Karl Jansky, ingegnere dei Bell Telephone Laboratories, costruì un'antenna molto sensibile per individuare la sorgente di certe onde radio che interferivano con le comunicazioni telefoniche transatlantiche. Fu così che notò che una delle sorgenti del rumore variava con un periodo di 24 ore e che la sua comparsa e la sua sparizione coincidevano con quelli della Via Lattea sulla volta celeste. Chiaramente, la fonte di queste onde doveva trovarsi né sulla Terra né nel sistema solare, bensì in distanti regioni della nostra Galassia. L'annuncio della scoperta di radioonde di origine galattica sbalordì gli astronomi ma non ebbe, anche in questo caso, conseguenze rilevanti.
Al termine della seconda guerra mondiale, quanti si erano occupati dello sviluppo del radar, ritornarono al lavoro civile presso università e laboratori di ricerca. Si cominciarono quindi a costruire i primi radiotelescopi, strumenti abbastanza primitivi e fortemente limitati dalla loro scarsa risoluzione angolare.
Difatti la finezza dei dettagli rilevabili da parte di un telescopio dipende fondamentalmente dal rapporto tra le dimensioni dello strumento e la lunghezza d'onda alla quale vengono compiute le osservazioni. Quanto più questo rapporto è elevato, tanto migliore è la risoluzione. Per esempio, in un telescopio ottico di 5 metri di diametro il rapporto vale (per la luce rossa) r = 5 m/(6 × 10−7) m = 8,3 × 106. Per un radiotelescopio di 100 metri di diametro invece, essendo la lunghezza d'onda radio dell'ordine dei centimetri risulta r' = 100 m/0,01 m = 104. Per disporre della medesima risoluzione quindi sarebbe necessaria un'antenna radio di 83 km! Di conseguenza affinché un singolo radiotelescopio possa raggiungere la stessa risoluzione di un telescopio ottico, dovrebbe disporre di un'antenna del diametro di parecchi chilometri, cosa evidentemente impensabile.
I radioastronomi sono riusciti ad escogitare comunque una tecnica potente, chiamata interferometria, grazie alla quale una lunga schiera di piccole antenne simula la risoluzione ottenibile da un unico grande radiotelescopio. Così dalla fine degli anni sessanta furono costruiti interferometri sempre più grandi: il più grande di questi, il Very Large Array (VLA) consta di 27 radiotelescopi, ciascuno di 25 m di diametro, allacciati tra loro e distribuiti in una schiera a forma di “Y” che si allunga per 40 km. Questo apparato può rivelare particolari in cielo con una risoluzione paragonabile al Telescopio Spaziale Hubble nella luce visibile (equivalente a individuare una moneta da 100 lire a una distanza di 50 km).
L'abbondanza di dati e dettagli proveniente da sistemi di tal genere permise di chiarire la natura di quelle radiosorgenti che si mostravano con una struttura a due lobi, disposti simmetricamente, come la già citata Cygnus A. Nei primi anni settanta i ricercatori dell'Università di Cambridge proposero una soluzione dalla quale sono scaturite tutte le teorie correnti sulle radiogalassie: i lobi devono essere alimentati da due fasci gemelli di gas relativistico (cioè in moto con velocità prossime a quella della luce) creato nel nucleo della galassia e che si propaga in direzioni diametralmente opposte verso i lobi (fig. 24).
Figura 24: Modello di una radiogalassia.
Per capire come si formano i lobi e le macchie calde ai loro estremi si deve tener presente che le galassie non sono circondate da spazio vuoto. Proprio come lo spazio tra le stelle di una galassia è permeato dal mezzo interstellare, composto da gas e polvere, così lo spazio tra le galassie è occupato dal cosiddetto mezzo intergalattico. Per quanto tenue possa essere, questa materia intergalattica oppone resistenza alla libera espansione dei getti gassosi emanati dalla galassia, ed è la sua presenza che origina le strutture osservabili di una radiosorgente. Una volta iniziata l'attività nel centro della galassia, ciascuno dei due getti si fa strada nella galassia stessa dapprima filtrando attraverso il mezzo interstellare e poi sbucando nel mezzo intergalattico. Man mano che procede verso l'esterno, il getto incontra materia sempre meno densa: da circa un atomo d'idrogeno per centimetro cubico si passa a circa uno per alcuni milioni di centimetri cubici. In ogni caso, per procedere il getto deve spingere via la materia che incontra: la sua ‘punta' ne risulta così frenata e si muove più lentamente del flusso di gas che segue. Il risultato è che l'energia si accumula sulla parte avanzante del getto: questa è la spiegazione più plausibile delle macchie calde. Quando si avvicina alla macchia calda, il gas che si muove con velocità prossime a quella della luce subisce una repentina decelerazione. Questa improvvisa decelerazione genera un'onda d'urto i cui effetti sono molto importanti. Prima che il getto raggiunga l'onda d'urto, le particelle si muovono all'unisono e quasi tutta l'energia si trova sotto forma di energia cinetica ordinata. Il passaggio attraverso il fronte d'urto converte molta di questa energia in due forme, quella degli elettroni relativistici (elettroni che si muovono in tutte le direzioni con velocità prossime a quelle della luce) e quella di un campo magnetico, che sono i due ingredienti di base per lo sviluppo di una radiazione particolare, la radiazione di sincrotrone. È pertanto del tutto naturale che la radioemissione più intensa in una radiosorgente a doppio lobo sia generata proprio là dove il getto viene frenato dall'azione del gas circostante (fig. 25).
Figura 25: Schema delle radiosorgenti doppie.
Dopo l'impatto contro la macchia calda, il materiale sopraggiungente non può far altro che rimbalzare verso la galassia, gonfiando così gli immensi lobi che si vedono nelle immagini radio. In effetti, i lobi sono solo la parte più luminosa di una bolla molto più grande che avvolge l'intera sorgente e che è detta bozzolo.
Quasi tutta l'energia delle radiosorgenti è contenuta nei lobi e nel bozzolo: il contenuto energetico dei lobi è prodigioso e, in media, deve trattarsi di una quantità di energia pari a quella liberata dalla totale conversione in energia della massa di un milione di stelle.
Se negli anni settanta divennero sempre più convincenti gli argomenti teorici a favore dell'esistenza dei getti, tuttavia gli astronomi accettarono definitivamente la loro esistenza solo dopo la scoperta, avvenuta verso la fine del 1978, che una binaria a raggi X della nostra Via Lattea, conosciuta come SS433, produceva una coppia di getti sottili. A differenza di quelli delle radiogalassie, i getti di SS433 erano sufficientemente freddi e densi da consentire di misurarne la composizione e la velocità attraverso i comuni metodi spettroscopici. Si accertò così che consistevano di gas con una composizione chimica ordinaria, soprattutto idrogeno, e che questo gas si muoveva a un quarto della velocità della luce (fig. 26). Si trattava dunque di una prova incontrovertibile della natura dei getti in almeno un oggetto astronomico distante da noi solo 16 mila anni luce, anche se molto diverso da una radiogalassia.
Figura 26: Modello a getto rotante per il sistema SS433.
Se le proprietà dei getti su grande scala sembrano abbastanza sorprendenti, la loro natura diventa ancor più misteriosa nelle immediate vicinanze del nucleo. È qui che evidentemente va ricercata la sorgente dei getti.
Nell'esplorazione di questa zona, per mezzo di tecniche in grado di combinare le registrazioni eseguite in simultanea da radiotelescopi distribuiti su un intero continente, si osserva che i getti possiedono una loro struttura definita già su scale molto piccole: nel caso della radiogalassia vicina M87, che dista solo 50 milioni di anni luce, i getti possiedono una loro individualità a scale di soli 0,03 anni luce cioè solo circa cento volte maggiori della probabile dimensione di un buco nero. Conseguentemente, nascosto per ora all'osservazione diretta dalle piccole dimensioni del nucleo galattico, il processo di formazione dei getti negli AGN è materia di esclusiva competenza degli astronomi teorici.
Qual è il meccanismo in grado di accelerare un potente flusso di gas a velocità relativistiche senza produrre contemporaneamente un'intensa sorgente di radiazione? Non è facile immaginare come si possa arrivare a simili velocità sfruttando la sola energia gravitazionale rilasciata dalla materia in caduta. Un disco di accrescimento potrebbe riconvertire parte della sua energia creando un vento di particelle, ma è improbabile che un flusso del genere possa raggiungere le velocità osservate nei getti. C'è però un'altra sorgente di potenza disponibile: l'energia di rotazione di un buco nero rotante.
Quando Roger Penrose dell'Università di Oxford avanzò per primo questa ipotesi, per tutti gli astronomi fu un vero shock, perché nessuno aveva mai pensato che si potesse estrarre qualcosa da un buco nero. Invece sembra sia proprio la via giusta. Dalla teoria gravitazionale di Einstein discende che la legge che governa la crescita dei buchi neri impone esclusivamente che l'area superficiale dell'orizzonte del buco nero non possa mai diminuire. Poiché un buco nero rotante ha una superficie più piccola di quella di uno a riposo di pari massa, non c'è nessuna ragione, in linea di principio, perché non se ne possa estrarre l'energia dovuta alla rotazione.
Gli astrofisici hanno proposto diversi meccanismi in grado di estrarre energia da un buco nero di tal genere: uno di questi considera un buco nero rotante come un conduttore rotante all'interno di un campo magnetico. E come tutti i conduttori rotanti immersi in un campo magnetico, sulla superficie si formerebbe una differenza di potenziale tra l'equatore e i poli. Ciò significa che il buco nero si comporta come una batteria, solo che la differenza di potenziale fra i poli nel buco nero presente in un AGN è dell'ordine di 1015 volt invece dei familiari 12 volt degli accumulatori per auto!
Per estrarre energia da una batteria, bisogna inserirla in un circuito. Nel caso di un buco nero, il ruolo del filo è svolto dal gas ionizzato che circonda il buco nero, visto che tale gas (composto da ioni) è un eccellente conduttore. Questa modello permette effettivamente di estrarre energia dal buco nero e quindi accelerare le particelle cariche e sospingere il getto. Naturalmente l'estrazione di energia esercita un effetto frenante sulla rotazione del buco nero: in questo senso possiamo pensare al buco nero rotante come a una sorta di volano, che accumula energia rotazionale in vista di una successiva utilizzazione. Poiché in prossimità di un buco nero si ritiene presente un campo magnetico, le linee di forza del campo devono essere concatenate con il buco nero ossia devono ruotare assieme ad esso. Le particelle del gas ionizzato sono quindi forzate a ruotare anch'esse insieme alle linee del campo e quindi a muoversi lungo la direzione dell'asse di rotazione che è anche la direzione lungo la quale risultano attorcigliate le linee di campo.
Gli stessi meccanismi proposti per spiegare la produzione e la collimazione dei getti nei nuclei galattici attivi possono essere generalizzati per spiegare i getti che si riscontrano anche in altre situazioni astrofisiche. Oramai è assodato che i getti si trovano dappertutto nell'universo. Anche dai dischi gassosi rotanti nei quali si stanno formando stelle come il Sole, scaturiscono sottilissimi getti che si protendono nello spazio per diversi anni luce. Evidentemente però questi getti protostellari sono molto diversi da quelli degli AGN: hanno velocità dell'ordine di soli 100 km/s (ossia tremila volte inferiori), e inoltre sono costituiti da gas di composizione ordinaria invece che da coppie elettroni–positroni (l'antiparticella dell'elettrone).
Altri getti si sono individuati di recente in molte binarie X della nostra Galassia. Questi ultimi, che sembrano versioni in miniatura dei getti prodotti dalle radiosorgenti doppie extragalattiche, potrebbero essere il risultato di processi simili, ma provocati da un buco nero con una massa enormemente inferiore: circa 10 Mo invece che molti milioni di masse solari.
Resta comunque la straordinarietà dei getti delle galassie attive, getti che trasportano energia a una velocità maggiore del 99% di quella della luce. Questi getti relativistici possono essere considerati il biglietto da visita dei buchi neri supermassicci. La teoria ci dice che la potenza del getto può scaturire tutta direttamente dalla rotazione del buco nero. Le più cospicue manifestazioni di attività nelle galassie possono essere perciò un esito diretto di processi governati dalla teoria di Einstein ai suoi limiti più estremi, operanti nelle profondità dei nuclei galattici e ad una scala che è dieci miliardi di volte inferiore di quella dei lobi radio.