Lezione 2: il Sole e le stelle

La Terra è riscaldata dalla luce del Sole da 4,6 miliardi di anni, e ogni tipo di vita è sostenuto dall’energia solare, convertita in energia chimica dalle piante. Fin dagli inizi della storia, l’uomo ha riconosciuto la funzione vitale del Sole. Nel suo rispetto per il disco infuocato, egli lo ha considerato una divinità, oppure lo ha immaginato sotto la diretta protezione divina.

Il Sole è la stella più vicina alla Terra. Esso dista circa 8 minuti luce 1, mentre le stelle più vicine sono lontane 4,3 anni luce (Alfa Centauri). Esso è importante per gli astronomi perché è l’unica stella che possiamo osservare da vicino ma mentre per la maggior parte degli oggetti celesti si presenta il problema di osservarli in quanto troppo poco luminosi, il Sole fa sorgere il problema esattamente opposto: è tanto splendente che è pericoloso guardarlo.

Chiunque osservasse il Sole attraverso qualsiasi tipo di strumento ottico, anche per un solo istante, rischierebbe di divenire cieco.

Anche osservare il Sole a occhio nudo per un lungo periodo può danneggiare permanentemente la vista. Per chi invece volesse studiare alcune caratteristiche del Sole, c’è un solo modo sicuro e consiste nel proiettarne l’immagine ottenuta tramite un binocolo o un cannocchiale su un pezzo di carta bianca.

Il Sole ha un diametro apparente di circa mezzo grado (31' ) e già con mezzi modesti (e con le attenzioni dette) si possono notare dettagli interessanti come le macchie solari e l’oscuramento ai bordi mentre, nel corso delle eclissi totali, si possono osservare l’atmosfera e la corona solare.

La storia della nostra conoscenza del Sole comincia nei secoli XVIII e XIX, quando si studiarono estesamente in laboratorio le proprietà dei gas. Il primo rudimentale modello del Sole consisteva di una serie di gusci gassosi sferici e concentrici dove la pressione fosse tale da bilanciare il peso del gas sovrastante e che tale peso fosse determinato dalla attrazione gravitazionale della massa del gas del nocciolo sottostante.

Sempre nel XIX secolo fu misurata la temperatura superficiale, deducendola dalla sua intensità luminosa e dalla distribuzione di tale intensità nelle lunghezze d’onda comprese nel visibile (e cioè in quella parte dello spettro della radiazione elettromagnetica dove è sensibile anche il nostro occhio). Dalla densità media del Sole, dedotta dalla teoria gravitazionale, si concluse inoltre che il Sole non poteva che essere una sfera di idrogeno caldo.

D’altra parte l’enorme quantità di energia emessa dal Sole (1033 erg per secondo) non si poteva far derivare soltanto dalla combustione di materiale infiammabile: i combustibili chimici si sarebbero esauriti in poche migliaia di anni mentre, se il Sole si fosse contratto sotto la sua stessa forza di gravità al ritmo di 30 metri all’anno, riscaldandosi così grazie alla compressione dovuta al proprio campo gravitazionale, avrebbe avuto energia per circa 30 milioni di anni. Tuttavia i geologi e i paleontologi richiedevano per le loro teorie un periodo di tempo più lungo, in quanto le loro ricerche dimostravano che la Terra, e la vita su di essa, datavano da almeno qualche centinaio di milioni di anni. All’inizio di questo secolo fu quindi evidente che il Sole doveva avere una fonte di energia interna molto più efficiente di quella chimica o gravitazionale.

Occorrevano pertanto nuove leggi fisiche.

Dati e generalità

Presentiamo alcuni dati sul Sole utili in seguito per distinguerlo da altre stelle.

La distanza media Terra-Sole costituisce l’ Unità astronomica (UA), grandezza che si usa per esprimere le distanze planetarie e (più raramente) stellari. Come già detto precedentemente, in base alla terza legge di Keplero sul moto dei pianeti, si trova 1 UA = 149,6 milioni di km.

* Questa distanza è equivalente al percorso fatto dalla luce alla velocità di 300.000 km/s, in un tempo di 8 minuti.

• La massa M del Sole, sempre in base alle leggi di Keplero, è pari a M = 1,98 x 1030 kg. Essendo il diametro solare di 1.400.000 km (più che 100 volte quello della Terra), si può calcolare la densità: questa è di 1,4 grammi per centimetro cubo, quasi una volta e mezza quella dell’acqua (per confronto quella della Terra è di 5,5 g/cm3).

• A dispetto di tutta l’energia emessa in un secondo (come detto 1033 erg/s), il Sole non è una stella particolarmente luminosa. Nella scala delle magnitudini cioè quella che permette un raffronto tra la luminosità delle diverse stelle, il Sole apparirebbe poco più luminoso di una stella di quinta grandezza. (Si veda più avanti il paragrafo sulle magnitudini stellari.)

• Il Sole ruota su se stesso attorno ad un asse inclinato di circa 7 gradi sul piano dell’orbita terrestre (eclittica). La durata della rotazione (periodo) si deduce dal moto di alcune caratteristiche (non permanenti) della sua “superficie visibile”, le macchie solari che appaiono come macchie oscure o viceversa, di particolari luminosi (facole) oppure da osservazioni delle diverse componenti luminose provenienti dal Sole (lo spettro solare).

Il Sole non ruota come un corpo rigido, ma alla pari di Giove e Saturno, la sua velocità di rotazione è maggiore all’equatore e va progressivamente diminuendo verso i poli. Il periodo varia perciò dai 25 ai 27 giorni.

• L’accelerazione di gravità in superficie è 28 volte quella sulla Terra.

Caratteristiche osservative

Fotosfera

Osservando l’immagine proiettata del Sole, se ne può vedere la superficie splendente o fotosfera, sede di una intensa attività, costituita da gas a circa 5.500 gradi in continuo moto turbolento. Sebbene questa sia estremamente calda, secondo il metro terrestre, è fredda in confronto al nucleo interno, dove hanno luogo le reazioni nucleari che producono energia: qui si calcola che la temperatura sia di circa 15 milioni di gradi.

La fotosfera presenta un effetto chiamato granulazione (per cui appare composta di granuli), causato dalle celle di gas caldo che salgono ribollendo nella fotosfera, come l’acqua che bolle in pentola. Se si osserva attentamente l’immagine proiettata del Sole, si nota che i bordi appaiono meno luminosi del centro del disco, effetto chiamato oscuramento ai bordi. Questo è causato dal fatto che i gas della fotosfera sono alquanto trasparenti, cosicché al centro del disco si guarda più profondamente all’interno del Sole che non ai bordi.

Macchie solari

Sullo sfondo dell’oscuramento ai bordi si possono vedere macchie più luminose chiamate facole che sono aree di temperatura più elevata sulla fotosfera. Si possono notare anche un certo numero di zone più scure, dette macchie solari. Queste sono aree di gas più freddo, che appaiono scure per contrasto con la fotosfera.

Le macchie solari sono fenomeni temporanei che si verificano dove i campi magnetici sulla superficie del Sole sono particolarmente intensi. Evidentemente la presenza di un intenso campo magnetico blocca il flusso termico dall’interno del Sole, generando zone più fredde.

Le macchie solari hanno un centro scuro, chiamato ombra, a una temperatura di circa 4.000 gradi, circondato da una penombra più chiara, a circa 5.000 gradi Celsius. Queste caratteristiche hanno varie dimensioni, dai piccoli “pori”, non più grandi di un grosso granulo, alle enormi e complesse macchie dal diametro di centinaia di migliaia di km. Le macchie più grandi tendono a formarsi in gruppi, che possono misurare quanto la distanza fra la Terra e la Luna. Macchie tanto grandi sono visibili a occhio nudo quando il Sole è velato dall’atmosfera poco prima del tramonto. Una grande macchia impiega circa una settimana a svilupparsi completamente e poi scompare lentamente nel corso di un paio di settimane.

Talvolta gli intensi campi magnetici in un complesso gruppo di macchie diventano aggrovigliati, e liberano un lampo improvviso di energia chiamato brillamento, che può durare da pochi minuti a qualche ora. In un brillamento, delle particelle atomiche vengono eruttate nello spazio e queste, raggiungendo la Terra dopo circa un giorno, provocano negli strati superiori dell’atmosfera (ionosfera) effetti come le interferenze radio e le aurore polari.

Il numero delle macchie solari visibili aumenta e diminuisce secondo un ciclo che dura mediamente 11 anni (fig. 1).

Fig. 1. Ciclo delle macchie solari o diagramma di Maunder.

Nei momenti di minima attività, il Sole può essere senza macchie per giorni e giorni, mentre nei periodi di massima attività si possono vedere contemporaneamente più di cento macchie. Il ciclo fu scoperto dall’astronomo dilettante tedesco Heinrich Schwabe sulla base di osservazioni compiute nel periodo 1826 e 1843. All’inizio di ogni ciclo, le macchie solari appaiono ad alte latitudini (a circa 40 gradi dall’equatore) e nel corso degli 11 anni, tendono a formarsi via via a più basse latitudini o sull'equatore stesso. La vita di una macchia solare può durare da poche ore a diversi mesi. Alcune si possono osservare (quando sulla faccia visibile) per la durata di diverse rotazioni del Sole attorno al proprio asse.

Cromosfera

Sopra la fotosfera c’è un tenue strato di gas, di circa 10.000 km, chiamato cromosfera. Esso è tanto debole da essere normalmente visibile solo con speciali strumenti oppure, per pochi secondi durante un’eclisse totale.

È di colore rosa che le deriva dalla luce emessa dall’idrogeno (la cosiddetta riga H-Alfa).

Corona

L’oggetto più stupendo del Sole è la sua corona, un debole alone di gas che diventa visibile solo quando la fotosfera è totalmente oscurata da un’eclisse. La corona è composta di gas estremamente rarefatto, a una temperatura di 1-2 milioni di gradi. Dalla zona equatoriale si estendono strutture di gas coronale simili a petali, mentre dalle regioni polari si aprono a ventaglio i pennacchi coronali, più corti e delicati. La forma della corona muta nel corso del ciclo solare.

Del gas fluisce continuamente dalla corona nel sistema solare, formando quello che viene chiamato vento solare. Particelle atomiche (principalmente protoni ed elettroni) di vento solare passano accanto alla Terra a una velocità di circa 400–500 km/s avendo lasciato il Sole due giorni prima. L’effetto più evidente del vento solare è quello di far sì che le code delle comete si orientino nella direzione opposta al Sole. Il vento solare si estende al di là dell’orbita del pianeta più lontano, mescolandosi infine con il sottile gas interstellare. Si può quindi dire che, in un certo senso, tutti i pianeti del sistema solare sono dentro alle propaggini esterne della corona del Sole.

L’energia solare

Finora abbiamo descritto le “meraviglie” del Sole che si riferiscono alla sua superficie. Ma tutte le proprietà esteriori del Sole, dalle radiazioni che emette all’attività che mostra, sono il prodotto di ciò che avviene nel suo interno. La questione che vogliamo quindi affrontare è che cosa fa risplendere il Sole, e tutte le altre stelle, in modo così straordinario. Qual è quindi l'origine della luminosità solare?

I primi a porsi seriamente il problema furono due fisici, Lord Kelvin e Hermann von Helmholtz attorno al 1860 e la loro risposta si fondava sul fatto che un qualsiasi corpo, immerso in un campo gravitazionale cioè soggetto alla forza di gravità, possiede dell’energia potenziale che può all’occorrenza trasformarsi in altre forme energetiche, per esempio in calore. È quanto succede quando solleviamo da terra un sasso. Portatolo ad un certa altezza dal suolo, questo viene ad acquisire una energia potenziale che poi, se lasciato libero, trasforma gradualmente in energia cinetica (cioè energia di moto) durante la caduta. Alla fine, quando tutto è (apparentemente) ritornato come all’inizio, si potrebbe costatare un leggerissimo aumento della temperatura dei corpi coinvolti.

L’origine della formidabile erogazione di energia da parte del Sole veniva interpretata come la liberazione di energia gravitazionale nel corso della contrazione di una massa gassosa. A seguito di ciò nelle parti centrali del Sole dovrebbe sussistere una elevata temperatura dovuta alla compressione subita dal gas a causa degli strati più esterni e più freddi. Ne seguirebbe, secondo questa teoria, un trasferimento di energia analogo a quello che avviene tra un corpo caldo e uno più freddo. L’energia si trasferirebbe dalle parti più interne a quelle esterne comportando comunque una conseguente contrazione della massa del Sole. Ciò genererebbe ulteriore energia e il processo potrebbe quindi continuare. Basterebbe una riduzione minuscola del raggio del Sole, di circa 20 m all’anno, per giustificare la potenza osservata.

Tutto bene, tranne un problema: non di luminosità ma di tempo. Al tasso attuale di produzione energetica, il Sole avrebbe dato fondo a tutte le riserve di energia gravitazionale in meno di 100 milioni d’anni. Un tempo effettivamente molto lungo, che soddisfaceva le esigenze degli astronomi e dei fisici della fine dell’800. Ma lo studio geologico delle ere primaria e secondaria delle rocce terrestri ben presto ha mostrato che:

• l’energia irraggiata dal Sole non poteva essere molto diversa da quella osservata da noi oggi e, cosa fondamentale,

• l’età della Terra è di gran lunga maggiore, circa 4,5 miliardi di anni.

La gravità quindi non basta a risolvere la questione.

Per un'esatta comprensione del processo si dovettero attendere i primi decenni del XX secolo, la scoperta della natura dell’atomo, lo sviluppo delle teorie della relatività e della meccanica quantistica e, infine, l’accertamento che il Sole e quasi tutte le stelle sono composte principalmente di idrogeno.

Un importante progresso fu compiuto nel 1926 da Sir Arthur Eddington, sicuramente uno dei fisici e degli astronomi più importanti d’inizio secolo. Eddington fu tra i primi ad accettare la teoria della relatività di Albert Einstein che, tra le altre cose, include la famosa formula di equivalenza tra materia m ed energia E, E = mc2, dove la costante c esprime la velocità della luce c = 3 x 108 m/s. Ora, a causa del grande valore di c , è sufficiente una piccola quantità di massa per creare l’enorme quantità di energia emessa dal Sole.

Sapendo che l’atomo di elio ha una massa leggermente minore di quella di 4 atomi di idrogeno (la differenza è dello 0,7%), Eddington osservò che se fosse possibile trasformare l’idrogeno in elio, la luminosità del Sole potrebbe essere il risultato della conversione di 6 x 1011 kg di idrogeno ogni secondo, un tasso che sembra elevatissimo ma che invece, se il Sole fosse fatto di solo idrogeno, permetterebbe al Sole di risplendere per 100 miliardi di anni, dunque ben più a lungo dell’età della Terra!

Per soddisfacenti che potessero sembrare, questi risultati non bastavano a dimostrare che la fusione dell’idrogeno è effettivamente responsabile dell’energia solare. Si dovette innanzitutto superare la difficoltà che ostacolava la fusione dei nuclei di idrogeno in elio. In particolare, tenendo conto che questi nuclei (protoni) possiedono la stessa carica elettrica, non si riusciva a giustificare, nemmeno alle temperature proposte da Eddington di 40 milioni di gradi, come queste particelle potessero avvicinarsi le une alle altre, e tanto meno legarsi (fondersi) tra loro. La scoperta nel 1928 dell’effetto tunnel, secondo il quale due particelle sufficientemente vicine possono attraversare la barriera elettrica repulsiva che esiste tra loro, permise di riportare il limite di temperatura sui 15 milioni di gradi. Altre scoperte quali quella del neutrone, del deuterio (2H, l’isotopo 2 dell’idrogeno che ha nel nucleo un protone e un neutrone), dell’elettrone positivo (e+) e del neutrino (ν) permisero infine a Hans Bethe e Charles Critchfield di definire l’insieme di reazioni che costituiscono la risposta al problema della fusione dell’idrogeno, la cosiddetta catena protone-protone.

La catena protone-protone

La catena protone-protone è un processo che nelle sue linee fondamentali si può suddividere in 3 tappe.

Il primo passo è la formazione del deuterio a partire dalla collisione con effetto tunnel di due protoni.

Immediatamente uno dei protoni si trasforma in un neutrone, espellendo la sua carica positiva sotto forma di un positrone, che è la particella di antimateria corrispondente dell’elettrone. Questo processo è accompagnato dal rilascio di energia sotto forma di un neutrino. Dato che nell’ambiente incandescente del nucleo solare la materia è presente in forma ionizzata come una miscela di particelle positive ed elettroni (il plasma), l’antimateria non può coesistere con la materia normale. Difatti il positrone incontra con alta probabilità un elettrone e quindi i due si annichilano liberando energia, cioè un raggio di luce gamma. In sostanza le loro masse e cariche letteralmente spariscono e viene generato un raggio di luce dotato di notevole energia.

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Fig. 2. Catena protone-protone: a) formazione del deuterio.

La velocità con cui avviene questa prima tappa del processo è fondamentale per la stabilità delle stelle e del nostro Sole. Se teniamo presente che in una bomba termonucleare quando inizia una reazione di fusione nucleare, l’emissione di energia è pressoché istantanea, ci si può chiedere come può il Sole non esplodere a sua volta e invece centellinare la sua radiazione come è dimostrato dalla storia geologica della Terra. La risposta sta appunto in questa prima reazione: pur tenendo conto dell’effetto tunnel, la fusione di due protoni che dà origine al deuterio è straordinariamente lenta. In media un protone deve attendere pazientemente circa 1010 anni prima che le collisioni casuali con altri protoni gli conferiscano energia e velocità da poter superare la repulsione elettrica. Il processo funziona solo perché nel Sole ci sono così tanti protoni che in qualunque momento qualcuno di essi sta effettivamente subendo questa reazione.

Una volta creato il deuterio, questo reagisce velocissimamente con un altro protone, assorbendolo e rilasciando nuovi raggi gamma. Questa volta il protone non si trasforma in neutrone, e le tre particelle costituiscono il nucleo di un isotopo leggero dell’elio, il 3He.

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Fig. 3. Catena protone-protone: b) formazione dell’isotopo 3He.

L’ultimo passaggio avviene in media dopo un milione d’anni, quando due nuclei di 3He collidono tra loro con una velocità sufficiente a fonderli in un nucleo di elio normale, 4He, con la contemporanea emissione di una coppia di protoni liberi.

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Fig. 4. Catena protone-protone: c) formazione dell’elio 4He.

Gran parte della potenza solare, circa il 77%, viene prodotta in questo modo; al resto provvedono diverse altre reazioni di fusione dove comunque intervengono nuclei di elementi più pesanti. Nel processo CNO, per esempio, vengono coinvolti il carbonio C, l’azoto N e l’ossigeno O. Tutte comunque mostrano una sensibile dipendenza dalla temperatura e generalmente queste ultime risultano più importanti nelle stelle con temperature centrali più elevate che nel Sole.

L’interno del Sole

Chiarita l’origine dell’energia solare possiamo ora delineare un modello del Sole e in particolare di come venga mantenuto l’equilibrio tra la forza gravitazionale che tende a far collassare gli strati superiori su quelli inferiori e le forze dovute alla pressione che si oppongono a tale compressione. In sostanza la legge fisica fondamentale che va rispettata è quella dell’ equilibrio idrostatico per cui in ogni strato del corpo solare il peso del gas sovrastante deve eguagliare esattamente la pressione rivolta verso l’esterno; in caso contrario il Sole o si espanderebbe oppure si contrarrebbe: le osservazioni comunque escludono però entrambe le circostanze.

Fig . 5. Struttura interna del Sole.


Procediamo quindi dal centro verso l’esterno (fig. 5). Ovviamente il tasso di produzione di energia tocca il valore massimo al centro dove la temperatura è di 15 × 106 (15 milioni) di gradi e diminuisce man mano che, salendo verso la superficie, la temperatura diminuisce. Considerando gusci progressivamente più estesi comprendiamo gradualmente sempre più massa e quindi sempre più reazioni nucleari. Ne segue che l’energia generata aumenta rapidamente. Tuttavia questo aumento cessa del tutto quando nel nostro viaggio verso l’esterno raggiungiamo la temperatura di 7 × 106 gradi, alla quale le velocità dei protoni sono troppo basse per continuare a sostenere la reazione iniziale di fusione. Abbiamo raggiunto il bordo esterno del nucleo che quindi viene ad occupare circa il 10% del volume del Sole.

A causa della sua straordinaria densità, che raggiunge i 160 g/cm3 (dieci volte più del piombo), il nucleo contiene al suo interno il 40% della massa solare e nonostante la densità esso è ancora gassoso. Attualmente nella parte più interna del nucleo circa la metà dell’idrogeno si è già fusa in elio.

Al di fuori della zona centrale, entriamo in una regione detta inviluppo solare, dove il restante 60% della massa si distribuisce lungo il 60-70% del raggio.

L’inviluppo agisce quasi come una copertura isolante che da un lato frena il flusso della radiazione verso l’esterno e, dall’altro, mantiene a livelli elevati la pressione e la temperatura del nucleo. Esso svolge inoltre la funzione di degradare le energie dei fotoni gamma in uscita.

Così l’energia creata nel nucleo si fa strada attraverso l’interno del Sole collidendo continuamente con i nuclei degli atomi e con gli elettroni presenti. Una certa quantità di energia impiega in tal modo più di un milione di anni per raggiungere la superficie! Ogniqualvolta un fotone viene assorbito e quindi riemesso, la sua energia media è via via minore. Poiché l’energia non può sparire, deve moltiplicarsi necessariamente il numero di fotoni. Allora ciò che inizia la sua esistenza come un singolo raggio gamma di altissima energia emerge alla fine nella fotosfera sotto forma di migliaia di fotoni ottici di bassa energia: l’inviluppo converte quindi la letale radiazione del nucleo, in un fascio di innocua luce gialla.

Ad una distanza dal centro corrispondente al 70% del raggio, la temperatura raggiunge valori che rendono il trasporto di energia più efficace non più attraverso la radiazione, bensì con la convezione. Questa modalità di trasporto è quella che comunemente notiamo in una pentola riempita d’acqua quando viene riscaldata dal fondo. Parte dell’acqua, quella a maggior temperatura, inizia a muoversi verso l’alto mentre l’acqua più fredda scende lungo le pareti. Si formano così correnti convettive che rimescolano continuamente il liquido e trasportano calore dal basso verso l’alto. Analogamente nel Sole, il gas comincia a ribollire in una complessa serie di strati vorticosi che alla fine sboccano in superficie, dove li possiamo ammirare sotto forma della granulazione. Purtroppo le leggi fisiche che governano il moto di fluidi viscosi sono tra le più complicate della fisica e poco quindi si sa sul meccanismo della convezione. E poiché è lo strato convettivo combinato con la rotazione, a generare il campo magnetico e tutta l’attività solare, si capisce come si sia ancora lontani dal comprendere l’origine di tutti questi fenomeni.

Il modello solare che abbiamo esposto giustifica in modo soddisfacente la luminosità osservata e ci fornisce, per quanto riguarda l’età del Sole, un'indicazione che si accorda con ciò che sappiamo in merito all’età del Sistema Solare: il che dimostra che davvero l’energia solare è generata soprattutto dal ciclo protone–protone.

Difatti considerando che l’idrogeno disponibile alla fusione è solo quel 40% della massa presente nel nucleo, si stima che l’autonomia di combustibile sia tale da sostenere le reazioni nucleari per 10 miliardi di anni. Quando l’idrogeno finirà, e lo stadio evolutivo in cui avvengono le sue fusioni avrà termine, il Sole si trasformerà in una brillante gigante rossa. Sapendo che l’età della Terra e del Sole è di circa 5 miliardi di anni, se ne ricava che il Sole è a metà della sua evoluzione e che gli resta ancora da vivere un tempo abbastanza lungo. Possiamo pertanto godere di splendide giornate di Sole ancora per miliardi di anni a venire!

Le magnitudini stellari

Prima di affrontare l’esposizione dell’evoluzione stellare è necessario aprire una parentesi e chiarire un paio di elementi senza i quali sarebbe difficile comprendere la possibile storia di una stella. Queste nozioni si collegano ad osservazioni che ciascuno di noi può fare guardando il cielo stellato e cioè come le stelle non appaiano tutte egualmente brillanti. Vi sono quindi stelle abbastanza deboli (per es. la Polare) o appena percepibili ad occhio nudo, così come stelle molto luminose quali Sirio, Vega, Capella.

Il secondo aspetto si coglie ancora con un semplice sguardo e consiste nel notare che le stelle sono di diverso colore. Vi sono cioè stelle bianche come Sirio e Vega, rosse come Aldebaran, Antares e Betelgeuse, arancione come Arturo, gialle come il Sole e Capella.

Magnitudini apparenti

Sviluppando la prima osservazione si può naturalmente stabilire una classificazione entro cui disporre le stelle così da suddividerle in base alla loro luminosità. Questa scala prende il nome di scala delle magnitudini introdotta dal grande astronomo greco Ipparco di Nicea nel II secolo a.C. Egli definì le più brillanti come stelle di 1a grandezza o di magnitudine apparente 1, quelle un po’ più deboli di 2a, quindi stelle sempre più deboli fino alla 6a (magnitudine apparente 6). Misure moderne della luminosità cioè, lo ricordiamo, della quantità di energia emessa ogni secondo, hanno mostrato che le stelle della sesta magnitudine sono 100 volte meno luminose di quelle della prima, il che significa che la classificazione di Ipparco pone in classi di magnitudine consecutive stelle che, in media, sono circa 2,5 volte meno brillanti. Si noti anche che il valore della magnitudine è tanto più grande quanto più la stella è debole.

Questa classificazione, per quanto basata solo su impressioni visive, fu adottata tale e quale fino al secolo scorso, quando per la maggior precisione richiesta dagli strumenti scientifici (telescopi e fotografia astronomica), fu necessaria una revisione e una conseguente più precisa definizione. Si stabilì quindi che due stelle le cui luminosità siano nel rapporto 1 a 100 dovessero differire di 5 unità esatte in magnitudine (È la cosiddetta relazione di Pogson che lega fra loro le magnitudini m1 e m2 di due stelle con le rispettive intensità luminose rilevate S1 e S2. Assume la forma matematica m1 - m2 = - 2.5 log( S1/S2).) e, per mantenere una certa coerenza con la scala di Ipparco si pose la magnitudine della Polare pari a 2 (sostituita poi da un insieme più numeroso di stelle di riferimento). Precisata così la scala alcune stelle di prima grandezza vennero comunque ad assumere magnitudini nulle e negative. Per esempio Capella, Vega ed Arturo divennero di magnitudine 0 e Sirio, la più brillante, assunse la magnitudine m = - 1 , 5. In questa stessa scala, che non vale solo per le stelle ma per tutti gli astri, Venere arriva a m = -4,5, la Luna piena a -12,6 e il Sole a -26,7 magnitudini. All’altra estremità, oltre la sesta magnitudine, si hanno le stelle accessibili solo agli strumenti; un binocolo rivela quelle di magnitudine 8 e 9, un piccolo telescopio quelle di magnitudine 11 e 12 e uno professionale rende accessibili quelle di magnitudine 16 o 17 e superiori.

Magnitudini assolute

Le magnitudini, ottenute come si è detto, si dicono apparenti perché rappresentano le diverse luminosità delle stelle così come appaiono. D’altra parte, è esperienza comune che una piccola lampadina accesa posta vicino all’occhio appare più luminosa per esempio, di un impianto di illuminazione di uno stadio, se questo sta ad alcuni chilometri di distanza. Allo stesso modo, non è affatto garantito che la stella che appare più brillante di un’altra sia effettivamente, intrinsecamente, più luminosa di questa. Per poter fare un confronto e conoscere l’effettiva luminosità di una stella, è necessario calcolare quanto sarebbero brillanti se fossero tutte e due situate alla medesima distanza. In tal senso si è universalmente convenuto di fissare questa distanza standard uguale a 32,6 anni luce, pari a 10 parsec (Un parsec corrisponde alla distanza da cui l’unità astronomica è vista sotto l’angolo di un secondo d’arco. Valgono le seguenti uguaglianze: 1 parsec=206265 UA=3,26 anni luce). Di conseguenza si ottiene una nuova magnitudine, la cosiddetta magnitudine assoluta la quale non è altro che la magnitudine apparente che la stella avrebbe se si trovasse alla distanza standard. Detta d la distanza espressa in parsec e supposta conosciuta (cioè risolta la complessa questione della distanza stellare!), la magnitudine assoluta M si deduce immediatamente dalla magnitudine apparente! Per esempio, il Sole verrebbe ad assumere la magnitudine assoluta M = 4,83 e quindi verrebbe ad essere una stellina appena visibile ad occhio nudo. Al contrario Antares che possiede m = 1 assumerebbe la magnitudine assoluta M = -5. Viceversa, se in base a qualche tipo di osservazione, siamo in grado di stimare la magnitudine assoluta M di un astro, sarà possibile dedurre la sua distanza d.

Spettri stellari

E veniamo al diverso colore mostrato dalle stelle ricorrendo a fenomeni abbastanza conosciuti. Se prendiamo un pezzo di metallo e lo portiamo gradualmente ad incandescenza possiamo notare che, all’aumentare della temperatura, prima diventa rosso cupo, poi rosso chiaro, infine giallo e bianco azzurro. E evidente che qui il colore è un indice della temperatura del corpo. Nello stesso identico modo cioè obbedendo alla medesima legge fisica, si può correlare il colore delle stelle alla temperatura della loro fotosfera cosicché le stelle bianco-azzurre devono essere più calde di quelle rosse. In particolare, sfruttando alcune ipotesi semplificatrici è possibile introdurre un modello fisico delle stelle che in prima approssimazione, in base al loro colore, permette di riconoscere la temperatura caratteristica di ogni stella: le stelle bianche per esempio, possiedono temperature attorno ai 10.000 gradi, le gialle sui 6000 gradi e le rosse, relativamente fredde, hanno temperature prossime ai 3000 gradi.

Le magnitudini e i colori sono parametri importanti, ma senza gli spettri non si potrebbe capire quasi nulla della natura delle stelle. Fu Isaac Newton a scoprire che la luce del Sole può essere scomposta nelle sue varie componenti cromatiche. Per noi ora, questo fatto è un'esperienza abbastanza comune: basta far incidere un raggio di luce solare su un pezzo di vetro e far in modo che ne esca deviato in modo significativo (si prende allora un prisma di vetro). Si osserva che la luce bianca emerge dal vetro separata nei diversi colori dell’arcobaleno. Le leggi fisiche ci dicono che questo insieme di colori mette in evidenza le componenti elementari della luce solare:è il cosiddetto spettro solare. Se poi analizziamo con maggior dettaglio e quindi con l’appropriata strumentazione questo spettro, si potrebbero notare diverse righe scure, dette righe di assorbimento. L’origine di queste righe ciascuna relativa ad un certo colore (o lunghezza d’onda della radiazione), potè essere compresa non appena si raggiunse una soddisfacente comprensione dell’atomo, attorno agli anni Venti del nostro secolo. Difatti si riuscì ad associare ad ogni atomo un certo insieme caratteristico di righe e quindi ad interpretare gli spettri stellari e le relative righe di assorbimento come una specie di firma delle stelle, una firma che permetteva agli astronomi di ricavare le condizioni fisiche dei gas stellari, nonché la loro composizione chimica.

Su questa base, cioè sullo studio degli spettri stellari, si potè suddividere le stelle in diverse classi, costituenti la classificazione spettrale (o sequenza) di Harvard. Pertanto gli spettri stellari sono raggruppati in sette classi, i tipi spettrali che contengono la stragrande maggioranza delle stelle: più o meno il 99%. Per tener conto di differenziazioni più minute, le classi sono divise, ciascuna, in dieci sottoclassi, cosicché alla lettera con la quale si indica una classe si aggiunge un numero per indicare la sottoclasse. I tipi spettrali sono contrassegnati, nell’ordine, dalle lettere O, B, A, F, G, K, M. In questa classificazione il Sole, per esempio, rientra nel tipo G2. Questa sequenza spettrale è una sequenza di temperatura. Le stelle O e B sono stelle intrinsecamente blu, le A e F bianche, le G gialle, le K arancio, le M rosse. E, poiché le stelle a temperatura più elevata devono avere il massimo di emissione nel blu, e quelle a temperatura più bassa nel rosso, le stelle dei tipi O e B sono stelle ad alta temperatura superficiale, quelle dei tipi K ed M sono stelle a bassa temperatura superficiale (si veda la tav. 1).

Tavola 1. I tipi spettrali principali

Tipo

Colore

Temperatura (K)

Esempio

O

blu

50.000–28.000

chi Per, epsilon Ori

B

azzurro

28.000–9900

Rigel, Spica

A

bianco

9900– 7400

Vega, Sirio

F

bianco–giallo

7400–6000

Procione

G

giallo

6000–4900

Sole, alfa Cen A

K

arancio

4900–3500

Arturo

M

arancio–rosso

3500–2000

Betelgeuse

Con quest’ultimo elemento che ci permette ora di decodificare il messaggio trasportato dalla luce delle stelle, siamo finalmente in grado di aprire vie insospettate per la comprensione dell’evoluzione stellare.

Il diagramma HR

Ricordando il significato di magnitudine assoluta di un corpo e chiarito che il tipo spettrale dipende fortemente dalla temperatura, dovremmo aspettarci una qualche correlazione tra la magnitudine assoluta delle stelle e il tipo spettrale. I primi studi in questo campo furono condotti all’inizio del secolo dall’astronomo danese Ejnar Hertzsprung e dall’americano Henry Russel.
Con le stelle di cui si conosceva la distanza i due astronomi costruirono un diagramma nel quale erano riportati, in ascissa, il tipo spettrale (Hertzsprung aveva adoperato il colore, ma noi sappiamo che colore e spettro sono entrambi indicatori dello stesso parametro, la temperatura.) e, corrispondentemente, in ordinata, la magnitudine assoluta. Ogni stella conosciuta era dunque rappresentata, nel diagramma, da un punto la cui ascissa era un'indicazione della temperatura della stella e la cui ordinata era un'indicazione della luminosità, cioè del flusso di energia irradiata dalla stella. Nel diagramma l’asse verticale è dunque l’asse delle luminosità, in ordine crescente dal basso all’alto, e l’asse orizzontale è l’asse delle temperature in ordine decrescente da sinistra a destra: quindi le stelle di tipo spettrale O stanno a sinistra e quelle di tipo M stanno a destra. Il risultato di tale lavoro è rappresentato nella figura 6.


Fig. 6. Diagramma di Hertzsprung–Russel.

Val la pena di sottolineare che sull'asse delle ordinate a sinistra appaiono le magnitudini assolute.

Le stelle che stanno in alto sono quindi intrinsecamente più luminose di quelle che stanno in basso, e la differenza di cinque classi di magnitudine equivale ad un aumento di flusso emesso di 100 volte come si può notare nella equivalente scala verticale della luminosità a destra. Su questa scala si è posta ad uno la luminosità del Sole.

Il fatto che il diagramma esista, cioè che i punti rappresentativi delle stelle non si dispongano a caso, significa che effettivamente esiste la relazione sospettata tra temperatura e luminosità, anche se questa non sembra di quelle particolarmente semplici. Conviene ora esaminare il diagramma di Hertzsprung–Russel o diagramma HR e cercare di intuire come questo costituisca una pietra miliare nella comprensione della struttura e dell’evoluzione delle stelle.

Prima osservazione: il diagramma contiene stelle di tutti i tipi spettrali.

Seconda osservazione: la maggior parte delle stelle si dispone lungo una fascia che si sviluppa diagonalmente dalla sinistra in alto alla destra in basso. E in questa fascia che sono presenti tutti i tipi spettrali, dalle stelle blu, molto luminose, a quelle rosse, molto deboli. Questa fascia, o meglio, questa parte del diagramma HR, è chiamata sequenza principale o anche sequenza delle nane. Il Sole è una stella della sequenza principale dato che il suo tipo spettrale è G2 e la sua magnitudine assoluta +4,8. Il Sole è una stella nana.

Le altre stelle del diagramma si addensano in differenti zone:

a) lungo una fascia poco inclinata rispetto all’orizzontale che si estende dal tipo F al tipo M e che si mantiene intorno alle magnitudini assolute 0 e ± 1, alla quale è stato dato il nome di zona delle giganti;

b) in una zona più o meno diffusa comprendente tutti i tipi spettrali e che si estende tra i limiti -3 e -7 dei valori delle magnitudini assolute, alla quale è stato dato il nome di zona delle supergiganti, stelle luminosissime visibili anche a grande distanza;

c) in una zona, detta delle nane bianche, nel diagramma in basso a sinistra, contenente stelle molto deboli ma di alta temperatura visto che si trovano nelle classi spettrali B, A ed F.

E il significato di tutto ciò? Finora abbiamo solo fatto delle classificazioni. Vediamo allora come il diagramma HR sia uno strumento potente per determinare le distanze stellari. Altri significati e prospettive insperate verranno affrontate più avanti.

Innanzitutto va notato che il diagramma HR è stato costruito con le stelle di cui si conosceva la distanza perché solo per queste è possibile calcolare la magnitudine assoluta. La distanza di queste stelle si è ottenuta con delicate tecniche di misure (misure di parallasse), possibili solo per le stelle più vicine. Comunque consideriamo una stella per la quale non è possibile eseguire misure con tale tecnica (la distanza sarà allora maggiore di 200, 300 anni luce). Supponiamo invece che di questa stella si possa ottenere lo spettro. Di conseguenza possiamo ottenere la classe spettrale e, partendo da questa, tracciare una retta parallela all’asse delle magnitudini assolute fino ad incontrare una delle zone del diagramma. Da qui, con una parallela all’asse dei tipi spettrali, andiamo all’asse delle magnitudini assolute. Otteniamo così la magnitudine assoluta della stella senza conoscerne la distanza. Ma allora, poiché conosciamo la magnitudine assoluta e quella apparente (questa si può misurare per il solo fatto che la stella si vede!), possiamo come detto ricavare la distanza.

Dunque, per mezzo del diagramma HR, noti i tipi spettrali e le magnitudini apparenti, possiamo determinare le distanze stellari: almeno per tutte quelle stelle di cui si può avere lo spettro. Detto in altro modo, ciò significa che siamo in grado di determinare le distanze stellari non appena siamo in grado di fotografare le stelle! Nella sua semplicità, è un risultato fantastico!

Naturalmente, poiché nel diagramma non vi sono linee ma fasce, queste determinazioni non sono estremamente precise ma, in ogni caso, sono meglio che niente. Un’altra obiezione: prendiamo una stella di classe K. Dove ci si deve fermare per determinare la magnitudine assoluta? Sulla sequenza principale, intorno a M = +6, o proseguire e arrivare alla zona delle giganti, intorno a M = +1 , o proseguire ancora e arrivare alla zona delle supergiganti, intorno a M = -5? La risposta si trova ancora una volta nello studio della spettro in particolare nella rilevazione e confronto della larghezza delle righe presenti. Queste sono larghe nelle nane, sottili nelle giganti e molto sottili nelle supergiganti.

Nascita di una stella

Ricollegandoci alla prima osservazione sul diagramma HR e cioè al fatto che esso comprende tutte le stelle, viene spontaneo notare come la maggior parte di esse sia compresa nella sequenza principale. Questo fatto deve aver qualche significato. Si potrebbe in effetti pensare che le stelle si trovano prevalentemente nella sequenza principale perché lì, in quelle particolari condizioni fisiche, passano il tempo maggiore della loro esistenza. Su questa nuova chiave interpretativa del diagramma HR si basa la teoria dell’evoluzione stellare.

Noi siamo abituati a considerare il Sole e le stelle come eterne; le stesse costellazioni che brillano nel nostro cielo sono state cantate da Saffo; i moti dei pianeti e le eclissi di Sole e di Luna che oggi sappiamo essere fenomeni normali, hanno spaventato e incuriosito gli uomini delle caverne. Eppure anche i corpi celesti hanno una loro vita; alcune stelle nascono e muoiono nel giro di pochi milioni di anni, come la brillante e azzurra Rigel, altre seguiteranno a brillare per molte decine di miliardi di anni e saranno ancora praticamente immutate quando la specie umana sarà forse scomparsa da tempo.

Che le stelle si formino da addensamenti della materia interstellare è accertato, sebbene siano ancora in gran parte oscuri i dettagli di come questo avvenga. Si pensa che nello spazio interstellare, dove vagano gas e minuscole particelle solide (le cosiddette polveri interstellari), si formino casualmente delle concentrazioni di materia 10, 100 o anche 1000 e 10.000 volte più dense. Sono le nubi interstellari, che si manifestano o come chiazze luminose, che diffondono la luce delle stelle che vi sono immerse, o come macchie scure che assorbono completamente la luce delle stelle retrostanti. Anche queste nubi, confrontate con il vuoto che noi sappiamo produrre artificialmente, sono molto più “vuote”. Però in esse si possono formare, sempre casualmente, delle condensazioni di materia un po più dense del mezzo circostante. Queste condensazioni attraggono con la loro forza di gravità altra materia. Addensamenti di questo tipo in alcuni casi sono visibili come minuscole macchioline oscure: sono i globuli di Bok, detti così dal nome dell’astronomo Bart Bok che nel 1947 li segnalò. La piccola condensazione iniziale cresce e più cresce più aumenta la sua forza di attrazione gravitazionale; altra materia le cade addosso e in qualche decina o centinaia di migliaia di anni essa raggiunge una massa “stellare”. Durante le prime fasi di contrazione la materia è ancora rarefatta e trasparente; il calore prodotto dalla compressione viene rapidamente dissipato nel mezzo circostante. Ma, con l’aumentare della densità, il mezzo diventa opaco, e il calore non sfugge più così facilmente. Il gas si riscalda e arriva un momento in cui la temperatura è abbastanza elevata da permettere che l’idrogeno (che costituisce il 70 per cento in massa dell’universo) si trasformi in elio. Infatti alta temperatura vuol dire alta velocità o grande energia cinetica delle particelle. Solo grazie a questa energia più particelle positive come i protoni possono vincere la forza repulsiva che agisce su particelle dello stesso segno e fondersi a formare un nucleo più pesante. Come già discusso, nella catena protone–protone, quattro nuclei di idrogeno (o protoni) a temperature che variano fra i 5 e i 50 milioni di gradi (circa 1000 volte la temperatura superficiale), a seconda della massa che si condensa, si uniscono a formare un nucleo di elio (o particella alfa). Ma la massa della particella alfa è di sette millesimi più piccola della somma dei quattro protoni. Questa esigua quantità di materia si è trasformata in energia, un'energia pari al prodotto della massa scomparsa per il quadrato della velocità della luce. In formula abbiamo la celebre relazione di Einstein E = mc 2. Quando questo avviene, la stella inizia la fase più lunga e stabile della sua vita. Infatti ha raggiunto una condizione di equilibrio fra due forze opposte: la forza di gravitazione che tenderebbe a schiacciarla sotto il proprio peso, e la forza esercitata dalla pressione del gas, che tenderebbe a farla espandere e disperdere nello spazio interstellare.

Per una stella medio–piccola come il Sole, la durata della fase di “condensazione” si stima attorno ai dieci milioni di anni ma per stelle più massicce questa è decisamente più breve.

Ovviamente l’accrescimento e la formazione di un oggetto stellare non avviene nel semplice modo appena schematizzato ma passa anche attraverso diverse altre tappe che formano gli elementi intermedi di una progressione della quale abbiamo finora detto del solo aspetto iniziale (le nubi di materia interstellare).

Una di queste tappe già nominata a riguardo del Sole è la fase T–Tauri. Le stelle del tipo T–Tauri mostrano un'estrema variabilità della magnitudine, indice della loro instabilità. Dallo studio del loro spettro si deduce inoltre che questi oggetti sono circondati da abbondante gas circumstellare: difatti queste stelle sono così giovani che stanno ancora accumulando massa dall’ambiente circostante. Il tasso di caduta di materia sulla stella può quindi aumentare o diminuire all’improvviso per cui l’astro dovrà aumentare o diminuire parallelamente la propria luminosità: e questo dà ragione della variabilità in magnitudine. In aggiunta, a seguito della formazione di un disco di accrescimento, si accompagnano nei dintorni delle stelle T–Tauri anche potenti venti stellari in uscita che come detto a riguardo della formazione del Sistema Solare, contribuiscono a disperdere nello spazio una frazione dei gas residui.

L’inizio del processo di formazione dell’elio si considera l’atto di nascita di una stella vera e propria. La “protostella” che si trovava inizialmente in alto a destra del diagramma HR (nebulosa luminosa ma fredda) da questo momento si sposta (più o meno) gradualmente a sinistra e in basso, inserendosi finalmente nella sequenza principale del diagramma HR.

Vita di una stella

Il procedere delle reazioni nucleari con trasformazione di idrogeno in elio mantiene costante la temperatura del centro della stella e costante resta anche la pressione del gas che è dovuta proprio al moto casuale delle singole particelle, moto che è tanto più rapido quanto maggiore è la temperatura del gas. In realtà questa costanza è mantenuta grazie ad una specie di “termostato” naturale. Se, per esempio, il tasso a cui si verificano le reazioni nucleari rallenta, la temperatura diminuisce; e di conseguenza diminuisce anche la pressione che non sarà più in grado di equilibrare la forza di gravitazione. Si avrà allora una compressione con conseguente riscaldamento del gas. Questo aumento di temperatura provoca un aumento di energia prodotta dalle reazioni nucleari e l’equilibrio si ristabilisce (fig. 7).

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Fig. 7. Ripristino dell’equilibrio a seguito di una diminuzione nella produzione di energia.

Analogamente, se il tasso di reazioni cresce troppo, e la temperatura aumenta tanto che la pressione del gas supera la forza di gravitazione, si avrà un'espansione con conseguente raffreddamento e l’equilibrio verrà ristabilito (si scambino nella fig. 7 i termini diminuzione e aumento). Così, una stella spende la maggior parte della sua vita consumando l’idrogeno contenuto nella sua parte centrale più calda, producendo energia in maniera costante, grazie al suo termostato, e irraggiando nello spazio l’energia prodotta.

Tuttavia, come gli esseri umani, anche le stelle invecchiano ed evolvono in continuazione, anche mentre permangono sulla sequenza principale. È solo questione di tempo, ossia della rapidità con cui si producono le trasformazioni di idrogeno in elio. Le osservazioni indicano che quanto maggiore è la massa di una stella, tanto maggiore è la sua luminosità. Le stelle di massa più piccola che si conoscano hanno massa pari a qualche centesimo della massa solare e sono quasi un milione di volte meno luminose; all’altro estremo abbiamo stelle con masse di circa cento volte quella del Sole e circa un milione di volte più luminose.

Allora, le stelle di piccola massa dispongono di un combustibile nucleare cento volte più piccolo del Sole, ma lo consumano anche un milione di volte più lentamente. Sono stelle povere di capitale energetico, ma dispongono delle loro fonti con molta parsimonia. Perciò queste deboli stelline, chiamate anche nane rosse per il loro colore rossastro, avranno disponibilità di idrogeno per un tempo diecimila volte più lungo che non il Sole (la cui disponibilità di idrogeno, sappiamo, può durare circa 10 miliardi di anni).

Tavola 2. Durata della permanenza nella sequenza principale.

Massa

Luminosità

Vita (anni)

0,1

0,0001

10.000 * 109

0,5

0,04

125 * 109

1

1

10 * 109

2

20

1 * 109

5

600

80 * 106

10

5.000

10 * 106

50

1.000.000

0,5 * 106

Alcuni esempi di nane rosse del tipo spettrale M sono Proxima Centauri, che è anche la stella più vicina a noi, oppure la Barnard +40.3561: ambedue circa diecimila volte meno splendenti del Sole.

Al contrario, le stelle di grande massa come Rigel, settantacinquemila volte più luminosa del Sole, o Spica, quasi diecimila volte lo splendore del Sole, pur avendo combustibile rispettivamente venti e dodici volte superiore al Sole, lo sperperano rapidamente e lo consumeranno in un tempo pari a 2,6 decimillesimi e rispettivamente 1 millesimo del corrispondente tempo solare. Ossia avranno idrogeno da “bruciare” per circa 3 milioni e per 12 milioni di anni.

Tali stelle di grande massa, caratterizzate anche da un'alta temperatura superficiale (20.000-30.000 gradi) che le fanno apparire di un colore azzurrastro (e perciò chiamate anche stelle azzurre), sono sempre immerse in nubi di materia interstellare. Là dove la materia interstellare non c’è, mancano pure le brillanti stelle azzurre. Questa è una riprova di quanto già sappiamo, ossia che le stelle nascono dalle nubi di materia interstellare. Infatti le stelle di grande massa durante la loro brevissima vita (nella scala dei tempi astronomici) non hanno avuto neppure il tempo di lasciare la “culla” in cui sono nate! Nelle nubi abbondano anche stelle di piccola massa, quasi sicuramente giovani; molte altre invece si trovano nelle più svariate regioni della Galassia, dove sembrano assenti le nubi e per questo fatto queste stelle risultano di formazione più antica.

Ma torniamo a chiederci: dopo che l’idrogeno del nocciolo centrale si è trasformato completamente in elio in circa 10 milioni di anni per le stelle più massicce, o dopo 10 miliardi per stelle come il Sole o ancora, fra 1.000 o 10.000 miliardi di anni per le stelle di piccola massa (tempo questo ben più lungo dell’attuale età della Galassia), che cosa potrà succedere?

Morte di una stella

La fase di stabilità della vita di una stella termina quando l’idrogeno del nucleo si è trasformato quasi completamente in elio. Da questo momento in poi l’evoluzione della stella imboccherà vie differenti a seconda della sua massa. Precisamente, assumendo come massa di riferimento quella solare, Mo, si individuano le seguenti linee evolutive:

• stelle di massa iniziale maggiore di 8Mo, evolvono attraverso le fasi di gigante rossa, supernova, stella di neutroni.

• stelle di massa iniziale inferiore a 8Mo, evolvono attraverso le fasi di gigante rossa, nana bianca, nana nera.

Vediamone i particolari. Con l’esaurimento dell’idrogeno nel nucleo viene a mancare la fonte d’energia che manteneva la temperatura e quindi una pressione centrale del gas sufficientemente alta da equilibrare la forza di gravitazione. Allora, la stella comincia a contrarsi. Negli strati immediatamente a contatto col nocciolo, dove l’idrogeno è ancora presente, la contrazione fa aumentare la temperatura e l’idrogeno prende a trasformarsi in elio. Però ciò non è sufficiente per raggiungere l’equilibrio. La contrazione rallenta ma non cessa; il processo continua fino a che la temperatura del nocciolo non raggiunge quei 100 milioni di gradi circa che sono sufficienti per far reagire l’elio: tre particelle alfa danno luogo ad un nucleo di carbonio, con liberazione di energia. Segue tutta una serie di vicende analoghe: l’elio si consuma, la stella si contrae e si riscalda, il carbonio dapprima inerte reagisce con un nucleo di elio e forma un nucleo di ossigeno e così via.

Ad ogni esaurimento di combustibile nucleare, seguono una contrazione ed un aumento di temperatura e densità del nocciolo. Inoltre, ad ogni contrazione delle parti interne corrispondono, per ragioni di equilibrio della stella nel suo complesso, un'espansione e raffreddamento degli strati superficiali. Si ha la cosiddetta gigante rossa. Questo avviene perché, quando si innesca il bruciamento (si, si dice proprio così!) dell’elio, la produzione di energia nucleare aumenta. Difatti per restare in equilibrio la stella deve dissipare nello spazio circostante tutta l’energia prodotta nel suo interno. Di conseguenza, deve aumentare la superficie di dissipazione, e questo lo fa espandendosi. In breve, arriverà un momento in cui il nocciolo è costituito essenzialmente di nuclei di ferro, la temperatura ha raggiunto valori dell’ordine dei 10 miliardi di gradi e densità dell’ordine di un miliardo di volte quella dell’acqua. In tali condizioni e in meno di un decimo di secondo, i nuclei di ferro si disintegrano in particelle alfa cioè si trasformano in nuclei di elio. Questa reazione però, a differenza delle precedenti svoltesi durante tutta la vita della stella, invece di produrre energia, ne assorbe. E ciò ha l’effetto di raffreddare bruscamente il nocciolo. Al corrispondente brusco calo della pressione, segue una caduta della materia circostante verso il centro con due conseguenze (fase di collasso):

• il nocciolo centrale viene compresso a densità pari a molte migliaia di miliardi di volte la densità dell’acqua, col risultato che elettroni e protoni vengono compattati a formare dei neutroni;

• le parti più esterne, compresse durante la caduta libera verso il centro, si riscaldano a molti milioni di gradi.

Ma siccome in quelle parti più esterne abbondano ancora nuclei in grado di dar luogo a reazioni nucleari produttrici di energia, queste si scatenano nel giro di poche decine di minuti. La stella, invece di produrre tanta energia quanta è in grado di dissiparne dalla sua superficie sotto forma di energia raggiante, ha una tale superproduzione da provocarne l’esplosione. Da macchina produttrice di energia nucleare controllata, diventa una vera e propria bomba nucleare. E' il fenomeno delle supernovae. Della stella rimane una nebulosa di gas in rapida espansione e che ancora oggi si osservano là dove mille o più anni fa esplosero delle supernovae: questi inviluppi di gas svaniscono in capo a poche centinaia di migliaia d’anni e il mezzo interstellare con cui la nebulosa si immedesima viene così arricchito di elementi chimici sintetizzati nella stella. Invece, il nocciolo che racchiude una massa circa pari a quella del Sole entro un raggio di una decina di chilometri, è diventato una stella di neutroni. Questo strano oggetto, nella sua rapida rotazione, dà luogo a emissioni con dei massimi regolari ogni volta che qualche sua zona perturbata (in genere i poli magnetici) è diretta verso l’osservatore, e con periodi di qualche frazione di secondo. Infatti in diversi casi, immersa nella nube residuo della supernova, si osserva una pulsar che è un sicuro indice per l’esistenza di una stella di neutroni.

Se poi la stella al momento del collasso possiede ancora una massa superiore a 3 Mo, l’equilibrio non viene raggiunto neanche con la materia ridotta ai soli neutroni. Allora, al diminuire del raggio del globo in contrazione, la gravità in superficie aumenta fino a diventare tale che le velocità di fuga uguaglia quella della luce: niente può più uscire dalla sfera avente il raggio raggiunto in quell'istante. Il corpo scompare, restando a manifestarne la presenza solo l’azione gravitazionale. Si è formato un buco nero (black hole).

Questi fino a trent’anni fa erano solo un'astrazione matematica: ora si ha ragione di credere che possano avere una reale esistenza fisica e diversi possibili buchi neri sono stati localizzati qua e là nel cielo. Si tratta comunque di risultati ancora opinabili e su cui non vi è un accordo generale.

Nelle stelle di piccola massa (minore di 8 Mo) già dopo la prima compressione che segue l’esaurimento dell’idrogeno nel nocciolo, il gas assume uno stato particolare detto “degenere”, dove gli atomi hanno perso tutti gli elettroni periferici. Il gas presente nel nucleo risulta così costituito da nuclei e da elettroni liberi. In tal modo la materia può raggiungere altissime densità in grado di sopportare le pressioni di strati più esterni fino a 1,4 Mo. Sopravvenuta la degenerazione, la stella subisce varie fasi sia di squilibri interni, che vengono però smorzati dalla massa di gas sovrastante, sia dei mutamenti macroscopici, come un'espansione che ne dilata il raggio di un centinaio di volte il valore iniziale e ne riduce la temperatura superficiale, ottenendo quella che già abbiamo chiamata fase di gigante rossa: gigante per le sue dimensioni, rossa per la sua temperatura di 2000 o 3000 gradi, che la mostra di un colore rossastro. La densità dell’atmosfera di questa gigante rossa è molto bassa e l’attrazione gravitazionale del nocciolo centrale non è sufficiente a trattenerla a lungo. Essa “evapora” lentamente nello spazio circumstellare, formando una specie di guscio attorno al nocciolo, le cui caratteristiche, alta temperatura superficiale e piccolo raggio (confrontabile con quello terrestre), ce lo fanno identificare con una classe di stelle chiamate nane bianche. Quest’ultime sono stabili solo se la loro massa non supera 1,4 volte la massa del Sole. D’altra parte nelle fasi di sequenza principale e di gigante rossa la gran parte della massa è stata persa attraverso il “vento stellare” per cui la maggioranza delle stelle possiede ora, al momento del collasso, una frazione di quella iniziale pari a 1,2 Mo. Poiché le stelle di massa iniziale inferiore alle 8 Mo sono di gran lunga le più numerose, la stragrande maggioranza delle stelle è destinata a finire quindi come una nana bianca.

Quella che crediamo essere la fase finale della vita di una stella di piccola massa è una stella calda e piccola, di bassa luminosità, formata da gas parzialmente o completamente degenerato e avvolta in un inviluppo gassoso in lenta espansione che col tempo si dissipa completamente. Questi gusci, il cui gas eccitato dalla stella centrale emette le radiazioni caratteristiche degli elementi che lo compongono, sono stati chiamati nebulose planetarie. È chiaro che non hanno nulla a che fare con i pianeti, ma il loro nome deriva dal fatto che, con i modesti telescopi del secolo scorso, apparivano come dischetti simili ai pianeti.

Il loro spettro invece è in tutto simile a quello delle nubi di gas interstellare, caratterizzato dalle emissioni dell’idrogeno, elio, carbonio, azoto, ossigeno, e cioè degli elementi più abbondanti nell’universo. Una nana bianca non ha più fonti d’energia. Non disponendo più di un termostato regolatore non può contrarsi e riscaldarsi tanto da far entrare in gioco i potenziali combustibili nucleari di cui dispone. Tuttavia, essendo un corpo caldo, essa seguita ad irraggiare (cioè a disperdere calore nello spazio) e quindi a raffreddarsi. Ma ci vorranno miliardi di anni perché si raffreddi tanto da non irraggiare più e da nana bianca trasformarsi in nana nera. Quindi, una fine ultra lenta e non catastrofica com’è invece quella delle stelle di grande massa.

Le evoluzioni appena descritte per stelle di massa diversa si possono riassumere con opportune tracce evolutive nel diagramma HR. Difatti, raggiunta la sequenza principale con l’avvio del processo di conversione dell’idrogeno in elio, la stella vi permane con piccoli spostamenti per la maggior parte della sua vita attiva.

Quando l’idrogeno comincia a scarseggiare, il nocciolo trova difficoltà a sostenere il peso degli strati sovrastanti e viene leggermente compresso; la compressione lo riscalda sempre più finché comincia a bruciare l’idrogeno di un sottile strato circostante a contatto con il caldissimo nocciolo. Questo allora comincia ad ingrandirsi per l’apporto di nuovo elio prodotto in tale strato; raggiunta una massa critica (circa il 12% della massa totale della stella) avviene il collasso ed ha inizio il rapido processo di espansione degli strati esterni inerti ed il conseguente raffreddamento superficiale per cui la stella abbandona la sequenza principale e migra verso il ramo delle giganti rosse (fig. 8).

-

Fig . 8. Evoluzione di una nana di sequenza principale.

Qui le stelle più massicce finiscono per esplodere come supernovae collassando in stelle neutroniche.

Le stelle di piccola massa sappiamo che da giganti o supergiganti rosse collassano in nane bianche, talune attraversando la fase di nebulosa planetaria. La traccia evolutiva nel diagramma HR in questa fase finale della vita attiva va dapprima verso sinistra e poi verso il basso fino a scendere molto al disotto della sequenza principale. Una traccia però tutt'altro che ben conosciuta, data l’estrema scarsezza ed incertezza delle informazioni sulla luminosità e sulla temperatura delle stelle eccitatrici delle nebulose planetarie. Questa fase dura comunque non più di un centinaio di migliaia d’anni, un attimo per i tempi di evoluzione stellare.

Segue poi il lento raffreddamento di nana bianca.

Scopriamo qui un altro fondamentale significato del diagramma HR: le configurazioni del diagramma HR non sono altro che il luogo dei punti rappresentativi delle diverse fasi evolutive, in particolare di quelle dove le stelle permangono più a lungo. Le aree vuote invece corrispondono ad accoppiamenti “impossibili” di luminosità e temperatura o a fasi che le stelle superano molto rapidamente.

Infine, la fig. 9 presenta in forma schematica le fasi attraversate da una stella che seguono quella di sequenza principale.

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Fig. 9. Sintesi schematica dell’evoluzione stellare dopo la fase di sequenza principale.

Frequently Asked Questions

FAQ

D.01. Che cosa sono le costellazioni?

Guardando il cielo in una notte stellata è naturale notare che in certe zone appaiono più stelle che in altre.

Vi sono cioè aree dove le stelle sembrano addensarsi che si alternano ad aree con poche stelle. Il nostro occhio è portato a scoprire in questa distribuzione irregolare qualche struttura, e a ciascuno viene spontaneo individuare raggruppamenti, o costellazioni, allo stesso modo dei nostri antenati migliaia di anni fa: così facendo diveniamo astronomi, ordinatori, classificatori di stelle, secondo l’etimologia greca del termine.

In molti casi le configurazioni delle costellazioni sono così evidenti che ciascuno di noi attribuirà gli stessi simboli o le stesse figure individuate nel cielo dagli antichi. È questo il modo più semplice per organizzare ai fini di una facile identificazione le oltre ottomila stelle visibili ad occhio nudo sull'intera sfera celeste.

Tutte le culture, tutte le società hanno inventato le loro costellazioni. Le figure che sono familiari a noi, figli della civiltà occidentale, furono individuate in tempi così antichi da averci fatto dimenticare le loro origini; sappiamo solo che risalgono ai popoli della Mesopotamia del 2000 a.C. e forse ancora prima. Queste figure furono adottate dagli antichi greci, che cambiarono il nome a molte di esse, e poi dai romani che conferirono la denominazione latina in uso ancora oggi. A tutto ciò si aggiunse il contributo arabo durante il Medioevo. Il cielo finì così per essere popolato da uno strabiliante miscuglio di persone, animali, strumenti: quasi un riflesso della storia umana.

Quarantotto costellazioni antiche sono giunte fino a noi. Il primo a registrare formalmente i loro nomi fu il matematico greco Eudosso (403-350 a.C), e la lista assunse la sua forma definitiva circa 600 anni più tardi nella Syntaxis del grande astronomo alessandrino Tolomeo. I nomi delle costellazioni ricordavano miti, antiche storie fantastiche e onoravano dei e grandi eroi. Se però cerchiamo nel cielo la concordanza tra le posizioni delle stelle con ciò che si pretende rappresentino, resteremmo delusi. Difatti, questo non deve meravigliare: le costellazioni non ritraggono qualcosa o qualcuno, ma semplicemente lo simboleggiano.

Il gruppo di costellazioni più importante è quello dello Zodiaco formato dalle dodici costellazioni che corrono lungo l’eclittica. Queste rappresentavano le residenze non solo di Apollo, il dio del Sole, ma anche dei pianeti, che personificavano altre divinità dell’Olimpo come Marte, il guerriero, la fertile Venere e il sommo Giove. Alcune di queste figure sono tra le più conosciute dei cieli. Il Toro splende sopra le nostre teste nel tardo autunno e nell’inverno, con un occhio rosso luminoso, la stella Aldebaran, collocato all’interno della sua testa a forma di “V”. Anche nei Gemelli si può riconoscere la coppia di guerrieri Castore e Polluce. Il Leone, con la disposizione a falce delle stelle che ne disegnano la criniera e con la brillante Regolo nel centro della figura (fig. 10). Delle costellazioni che non appartengono allo Zodiaco, senza dubbio le più conosciute sono le due Orse, l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore, che stazionano nei pressi del polo Nord celeste. Esse contengono rispettivamente il Grande e il Piccolo Carro, ciascuno disegnato da sette stelle facilmente riconoscibili nel cielo settentrionale. I Carri non sono costellazioni ma asterismi, cioè parti preminenti di figure più grandi. All’estremità del timone del Piccolo Carro, che non è facile da vedere perché costituito da stelle piuttosto deboli, si trova la Stella Polare, o Stella del Nord: con il loro allineamento, le due stelle all’estremità posteriore del Carro Maggiore ne indicano la posizione. Nel nostro secolo la Polare si trova a meno di 1° dal polo Nord celeste, e ci consente di orientarci facilmente durante la notte.

Una splendida costellazione che domina il cielo invernale è Orione (fig. 11), il maestoso cacciatore celeste, con la rossa Betelgeuse che rappresenta la spalla destra e contrasta vividamente con la blu Rigel, il suo ginocchio sinistro. Le tre stelle allineate tra queste due formano la “cintura” dalla quale pende la “spada” formata a sua volta da tre stelline e dalla Grande Nebulosa. In basso a sinistra di Orione c’è il maggiore dei suoi cani, appunto il Cane maggiore, con Sirio che è la stella più brillante del cielo.


Fig. 10. Costellazione del Leone.


Fig. 11. Costellazione di Orione.

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Fig. 12. Mappa stellare con evidenziate le costellazioni principali.


Le costellazioni classiche non coprono completamente il cielo. Tra le vecchie figure ci sono ampie regioni celesti con poche stelle luminose e molte deboli che i greci chiamavano amorphotoi, informi. Inoltre ai popoli del Mediterraneo e del Medio Oriente era nascosta la porzione della sfera celeste sotto la declinazione di 50° sud e le sue costellazioni restavano così senza nome. I nuovi scienziati del Rinascimento rivolsero pertanto la loro attenzione a queste parti del cielo e, con l’aiuto delle osservazioni degli esploratori del tempo, completarono la ricognizione di tutta la volta celeste. Nel corso di due secoli, tra il XVII e il XVIII, gli astronomi fecero a gara a inventare dozzine di nuove costellazioni che riflettevano i loro interessi o davano lustro alle loro scoperte. Ne seguì una notevole confusione cui si pose fine con la convenzione del 1922, quando l’Unione Astronomica Internazionale adottò 50 costellazioni classiche, più 38 moderne, portando il totale a 88. Successivamente, per ciascuna costellazione si adottarono anche dei confini rettilinei, così da dare una precisa organizzazione ai cieli. Ciascuna costellazione è ora identificata da una abbreviazione di tre lettere (Ari=Ariete, Tau=Toro, Leo= Leone . . . ) del nome e le stelle principali di ciascuna costellazione si indicano con una lettera greca grosso modo in ordine di luminosità, seguita dalla forma genitiva del nome della costellazione: così Betelgeuse è anche “alfa di Orione” o “alfa Orionis”.

Infine la figura 12 presenta una mappa stellare dell’intero cielo visibile alle ore 21 UT (tempo di Greenwich) del 14 novembre 1997 da Cavazzale, con evidenziate le linee delle principali costellazioni.

D.02. Quali sono le stelle più grandi e quelle più piccole?

La stella più luminosa entro 10 anni luce è Sirio.

La stella più luminosa entro 20 anni luce è Sirio.

La stella più luminosa entro 30 anni luce è Vega.

La stella più luminosa entro 40 anni luce è Arturo.

La stella più luminosa entro 50 anni luce è Arturo.

La stella più luminosa entro 60 anni luce è aldebaran (se la stima della sua distanza è corretta: altrimenti è Arturo).

La stella più luminosa entro 70 anni luce è aldebaran.

La stella più luminosa entro 80 anni luce è ancora Aldebaran.

La stella più luminosa entro 70 anni luce è ancora . . . Aldebaran.

La stella più luminosa entro 1000 anni luce è Rigel (se la stima della sua distanza è corretta).

La stella più luminosa entro 2000 anni luce è Deneb o Rigel.

La stella più luminosa nella nostra galassia è Cygnus OB2 numero 12 che possiede una magnitudine assoluta di circa - 10.

La stella più debole entro 12 anni luce è Giglas 51-15 con magnitudine assoluta 16,99 e tipo spettrale M6,5.

D.03. Qual è la frazione di stelle che fanno parte di sistemi multipli?

Il 57% delle stelle con caratteristiche vicine a quelle del nostro Sole (tipi spettrali F e G) comprendono due o più stelle. Se si considerano invece le più fredde stelle del tipo M (le M–nane), si trova che circa il 42% di esse fa parte di un sistema binario.

D.04. Ci sono stelle vicine che potranno diventare supernovae?

Ovvii candidati a diventare supernovae sono la alfa Orionis (Betelgeuse, tipo M1-2), alfa Scorpii (Antares, M1.5) e alfa Herculis (Rasalgethi, M5). Le prime due hanno una distanza di 400 anni luce, la terza di 600.

D.05. Che cosa può succedere alla Terra se una stella vicina esplode come supernova?

Secondo alcuni autori l’esplosione di una supernova entro 10 parsec rappresenterebbe un serio pericolo per la vita sulla Terra. In particolare la Terra sarebbe investita da un flusso di radiazione X e gamma altamente energetica tale da compromettere le possibilità di vita. A ciò si aggiungerebbe pure un flusso di particelle di alta energia ma gli effetti di tale “vento stellare” sugli organismi biologici sono ancora poco conosciuti.

D.06. Le stelle diverse dal Sole possiedono dei pianeti?

La risposta è positiva. La ricerca in quest'area è molto attiva e gli astronomi dal 1992 hanno scoperto l’esistenza di pianeti attorno a due pulsar (PSR 1257+12 e 0329+54) e ad una mezza dozzina di stelle di sequenza principale.

D.07. Che cos’è una pulsar?

Una pulsar è quello che rimane del collasso di una stella di grande massa, dopo che questa è esplosa come supernova. Consiste in un corpo molto piccolo del diametro di 10–20 km e massa circa 1,4 volte la massa del Sole. Ne segue una densità risultante di circa 106 tonnellate/cm3, un milione di volte maggiore di una nana bianca. Se si potesse comprimere la Terra per farle raggiungere questa densità, le sue dimensioni sarebbero quelle di uno stadio di calcio! La ragione di tale densità sta nel fatto che la materia non appare più costituita da atomi e quindi elementi formati da un nucleo di protoni e neutroni circondato da una nube di elettroni. Ora, un atomo normale è costituito soprattutto da spazio vuoto in quanto solo una parte su 1015 del suo volume è occupata dai protoni e neutroni del nucleo. In una pulsar invece, la materia è costituita dai costituenti del nucleo (protoni e neutroni) e non presenta più la nube di elettroni attorno al nucleo. Così la densità può raggiungere i valori tipici presenti nel solo nucleo atomico.

Una pulsar ruota velocemente attorno ad un asse e la rapidità di questa rotazione è dovuta allo stesso motivo che permette ad una ballerina che sta eseguendo una piroetta sul ghiaccio, di aumentare la propria velocità di rotazione semplicemente ritraendo le braccia. Man mano che il raggio della stella che collassa dopo l’esplosione della supernova diminuisce, la velocità di rotazione deve necessariamente aumentare. In modo analogo, anche il campo magnetico della stella collassa insieme alla materia, e la compressione delle linee di forza porta la sua intensità a un valore pari a circa 100 miliardi di volte quello del campo magnetico terrestre.

L’asse del campo magnetico di una pulsar, come del resto quello del nostro pianeta, in genere è inclinato rispetto all’asse di rotazione e perciò gli ruota attorno. Per questo motivo si crea un intenso fascio di radiazione che ruota con la stella, comportandosi come il fascio di un faro. Se per caso la Terra si trova nella direzione del fascio, la radiazione che viene rilevata sarà pulsata, cioè presenterà degli impulsi che si ripeteranno periodicamente. Date le piccole dimensioni gli impulsi si ripresentano ad intervalli che vanno da qualche secondo a qualche millesimo di secondo. Questo fatto sta all’origine del termine pulsar che deriva dalla contrazione di pulsating star, cioè stella pulsante.

La più famosa pulsar è quella al centro della Nebulosa del Granchio, resto della supernova osservata nel 1054.




Seconda stella a destra,
questo è il cammino
e poi dritto fino al mattino
poi la strada la trovi da te
porta all’isola che non c’è .

Edoardo Bennato